giovedì 22 ottobre 2009

troppo vento





Apparteneva a quella categoria di persone geneticamente incapaci di registrare i particolari. Nel lavoro esercitava un livello di attenzione e pignoleria tale che lo faceva odiare da tutti i suoi sottoposti, ma negli altri ambiti vagava distratto, completamente assorbito da insoliti pensieri. Rincasava sempre a notte inoltrata, eppure quell’insegna gli era sempre sfuggita. Chissà perché se ne rese conto proprio quella notte. Evidentemente, pur essendo all’apparenza tutte uguali, ci sono notti diverse dalle altre. Forse il vento che rumoreggiava tra i rami alti del viale alberato, forse la luna che ad ogni passo assumeva sembianze dai toni surreali. Forse e forse no. Non per lui. Quello strano individuo dal passo insolitamente leggero non dava peso agli eventi naturali. Un tempo, probabilmente, anche lui doveva essere stato concupito dai colori e dai suoni. Poi la sua mente analitica li aveva catalogati, fissati ed elaborati. Allo stesso modo di una lista dei vini o di un elenco telefonico. Non si lasciava più suggestionare, tanto meno emozionare. Una mente logica, sottile, sola… Da sempre era vissuto cercando di esorcizzare i momenti negativi concentrandosi sulle cose da fare riuscendo quasi sempre nell’intento. Quella sera il marasma interiore aveva trovato la forza per superare gli argini che con tanta determinazione lui stesso aveva alzato a impedire l’incessante flusso delle emozioni. Probabilmente quella sorta di fastidio allo stomaco, simile a un languore ma più acuto, più importuno, era stato determinante nel fargli notare il cartello. Era la vita che si reiterava. Un’indicazione pubblicitaria. Stava lì appesa al nulla da quasi un decennio, a pochi passi dalla sua abitudine. L’avesse individuata prima, avrebbe sicuramente colto l’occasione. Con un finto fare indolente si lasciò guidare verso quel locale notturno. Camminando notò un’auto parcheggiata sul marciapiede. Istintivamente gettò un’occhiata furtiva ai due che si baciavano all’interno. Il ragazzo alzò la testa incrociando quegli occhi sottili e un po’ invadenti. Un attimo. Poi il ragazzo tornò a baciare la sua bella, l’ombra a camminare in direzione di quella sorta di night club malfamato.
Francesco aveva ventun’anni, un semplice lavoro come operaio in una grande e rinomata industria alimentare e alcuni sogni nascosti sotto il cuscino, se ne riappropriava di notte quando tornava ad abbracciarlo. Il sogno più ricorrente era dedicato al calcio. Immaginava di essere un grande centravanti di un’importante squadra che, proprio grazie al suo contributo, si aggiudicava tutto il vincibile. Poi veniva chiamato in nazionale e guidava gli azzurri al titolo mondiale. Sogni. Per deglutire una vita grama e avara. Per continuare a respirare. Tutte le mattine sua madre si alzava poco prima di lui. Gli preparava la colazione con quell’aria da giovane vecchia che lo rattristava immensamente. Sua madre e quel sorriso semplice nonostante la vita. Avrebbe voluto dargli qualcosa di più, magari comprargli un cappotto nuovo e un bel paio di scarpe. Purtroppo non poteva permetterselo, non con il suo lavoro da operaio. Per questo i sogni. Lei non lo contrastava mai. Gli era persino piaciuta Lucilla nonostante i modi da bambina viziata e quell’aria snob. Sua madre era una donna speciale. Lucilla aveva gli occhi grandi come solo le bambole. Una ragazza bellissima. L’aveva conosciuta una sera nel bar dove aveva l’abituale ritrovo notturno con gli amici di sempre. Quando usciva, Francesco non sembrava un operaio. Ben vestito, il sorriso pronto, il capello giusto. Le ragazze lo notavano subito, poi si accorgevano anche di quale orologio avesse al polso, la marca del cellulare e, soprattutto, del catorcio che aveva al posto dell’automobile. Lucilla non fece caso a nulla di questo. Era un amore inevitabile… La stessa sera che si conobbero fecero l’amore. Per entrambi la prima volta. Lo fecero a casa di lei mentre i suoi genitori erano fuori. Quando lo conobbero non gli riservarono la stessa tolleranza per il proprio stato sociale accordatagli dalla figlia. Sua madre era una donna altera dallo sguardo severo. Fece subito capire che aveva notato quello che invece era sfuggito a Lucilla. Francesco viveva con la madre in un bilocale. Dormiva nel divano letto del salotto. Sua madre non usciva mai e, del resto dove sarebbe potuta andare… La storia con Lucilla, nonostante il veto dei genitori di lei, continuava. Divenne ineluttabile fare l’amore in auto. Dopo molti tentativi poco felici, trovarono il luogo adatto allo scopo in una via laterale di un quartiere periferico. Parcheggiavano sul marciapiede in una zona d’ombra e lì iniziavano la loro danza amorosa. I pochi passanti casuali non si accorgevano di nulla, oppure fingevano di farlo che, all’atto pratico, era la stessa identica cosa. Qualche volta l’ombra di un passante poteva farli sobbalzare costringendoli a sospendere le loro effusioni, ma solitamente, appena tutto tornava tranquillo, riprendevano da dove avevano interrotto. L’unico vero spavento l’ebbero la volta che un gatto saltò sul cofano dell’auto per scaldarsi le zampe…
La notte che venne al mondo, il cielo aveva organizzato un raduno di pesanti nubi scure. Per qualche momento la luna si era destreggiata tra i cumuli tempestosi poi, rinunciataria, aveva preso la decisione di defilarsi. Il vento che spingeva da est era particolarmente gelido. Ringhiava e ululava negli spifferi delle finestre di quella casa abbandonata che sua madre aveva scambiato per un reparto di ostetricia. Nacque così, al freddo e in un luogo deprimente e ostile. Altri forse avrebbero pensato ad una predestinazione, cosa che però a lui sfuggiva completamente nel significato. Di suo padre sapeva poco, per non dire nulla. Se ne era andato prima ancora che lui nascesse. Un perdigiorno che vagava per la città conquistando femmine che, dopo averle sedotte con una tecnica sinuosamente sopraffina, le abbandonava al loro destino e alla loro prole. Un giorno l’avrebbe incrociato senza sapere chi fosse, in un’insolita zuffa tra i sacchi dell’immondizia di un lercio seminterrato. Sconfitto, il più vecchio trovò riparo nella fuga. Ne avvertì di nuovo l’odore qualche giorno più tardi, ma c’era qualcosa di diverso. Quell’odore era frammisto ad un altro ben più acre. Giaceva sul bordo della strada con le viscere di fuori. Un’auto, un motore o un bastone. Chissà… Annusò per qualche istante quel corpo senza vita poi con naturale indifferenza fece ritorno alla precaria sicurezza del suo sottoscala. Sua madre era bellissima, forte e tenace. Scivolava per le vie con il suo portamento leggero ed aristocratico. Ne serbava probabilmente il ricordo. Forse. E’ sempre difficile affermarlo in questi casi. Dei suoi tre fratelli aveva da tempo perduto ogni traccia. Era solo. Solo come tutti i suoi simili, come tutti i viventi, in fondo… Quando aveva quattro anni, ormai un gatto esperto della vita di strada, si era imbattuto in un tipo d’uomo che passava il suo tempo a sorseggiare alcool ed inveire contro il vento. I suoi sensi erano tranquillizzati dal suo aspetto trasandato e da quello sguardo perso chissà poi dove. Al loro primo incontro, l’uomo divise con lui una scatoletta di tonno. Tanto bastò per farselo amico. Una amicizia dai toni fortemente surreali e forse, proprio per questo, perfettamente normale…
Dato che quel famigerato giorno di tanti anni prima c’era stato così tanto, troppo vento, aveva dedotto che la causa della sua miseranda condizione fosse proprio da attribuirsi a quell’evento atmosferico. Perciò lo odiava. Lo odiava con tutte le sue forze. Del resto, è cosa risaputa, c’è sempre bisogno di un capro espiatorio. Tutto era andato per il verso sbagliato, ogni minimo dettaglio palesava la sua sconfitta. Sopraffatto dalla vergogna e dalla disperazione aveva scritto due righe di commiato e poi si era diretto verso la stazione ferroviaria. Le parole d’addio erano rivolte a chi lo aveva amato, ma soprattutto a chi lo aveva detestato, di modo che si capisse bene per colpa di chi fosse spinto a commettere quel gesto. Si sdraiò sulle rotaie e attese l’arrivo di un treno che non arrivò mai. Aveva già perso tutti i treni possibili della vita, perdere quello della morte fu davvero crudele. Si rivolse all’ingegnere del creato apostrofandolo in tutti i modi ma non servì a gran che. Comprese più tardi, al pari di tante altre cose, che il tipo in questione, ammesso esistesse realmente, non si scomodava per cose così piccole. Il vento, la vita di un uomo. Che importanza potevano avere in confronto all’amministrazione dell’intero universo… Il vento. Era stato l’impeto del vento a far crollare un traliccio dell’alta tensione. C’era voluta un’intera giornata per ristabilire il traffico ferroviario. Purtroppo il giorno successivo aveva perduto, notte facendo, il coraggio. Perché ci vuole una buona dose di follia ma anche molto coraggio per compiere un atto così risoluto. Allora, sia come sia, chiuse la questione acquistando un biglietto in direzione “Lontano”, salì in carrozza e giunse in quella città, ventisei e passa anni fa. Da allora per ogni giorno di vento, una bottiglia e la follia di gridare al vento tutta la sua rabbia. Viveva tra i barboni, mangiava quando poteva, ma il derivato alcolico nella tasca del logoro cappotto non mancava mai. Nei giorni di vento nessuno lo poteva avvicinare, neanche le donne di strada a cui era simpatico e che quando potevano lo aiutavano. Persino quel gatto randagio che da qualche tempo era diventato suo compagno d’avventura in quei giorni istintivamente si defilava. Venne infine la sera di un giorno di vento. Tutto il tempo a parlare vaneggiando iracondo contro un basso lampione a forma di fungo. Il suo amico gatto nascosto in un sottoscala, le amiche al lavoro in un locale dove servivano piccoli sogni dal costo proporzionato. Vedeva entrare gli avventori ognuno con la propria miseria, tutti con la stessa richiesta. Un attimo per perdersi, una notte per pentirsi…
Il secondo cartello era, per quanto possibile, ancora più malridotto di quello in fondo alla via. Eppure era il principale. Costruito a mo’ di freccia, stava inclinato verso il basso ad indicare l’entrata. I neon che funzionavano, due su sette, emettevano una luce fioca e discontinua. Un filo elettrico scendeva a penzoloni sulla scala. L’aria poco accattivante del segnale avrebbe dovuto metterlo in guardia, persino la direzione avrebbe dovuto quantomeno evocare il seme del dubbio. Non quella notte. Il fastidio allo stomaco, non ancora elaborato, inconsapevolmente gli aveva abbassato il livello di autodifesa solitamente piuttosto alto e tale da renderlo refrattario a certi stimoli. Che fosse un luogo piuttosto equivoco, in zona tutti lo sapevano e lui doveva averlo intuito vedendo l’insegna con i neon traballanti. Probabilmente, guardando l’insegna con i neon traballanti, in cuor suo l’aveva sperato. Discese i sette scalini ricoperti di mozziconi che conducevano all’entrata di quel seminterrato. Un tizio dall’aria stralunata era apparentemente alle prese con un basso lampione a forma di fungo, anticamente verniciato di smalto verde brillante, ma divenuto un ammasso di ruggine. Un gatto rannicchiato in un angolo buio del sottoscala gli lanciò un sinistro avvertimento. Non seppe interpretarlo o forse non lo volle fare ed entrò. L’aria era infestata dalle esalazioni dei tabagisti impenitenti, assolutamente in barba alle recenti norme antifumo. Come contagiato, lui che non fumava mai nei luoghi chiusi, andò subito con la mano destra a saggiare il taschino dove teneva le sigarette. Al bar chiese ed ottenne un whisky. Mentre fumava e sorseggiava la sua bibita alcolica cominciò a guardarsi intorno. Poche persone, una ventina o poco più. Una sottospecie di pianista maldestro maltrattava pietosamente i tasti neroavorio nel tentativo di emettere un’aria complice che invece riusciva perfettamente malinconica. I drappi rossi alle pareti, le luci basse, il fumo, la musica, le donne scosciate, tutto lasciava pensare ad un bordello d’altri tempi. Tempi a parte, così era. Mentre realizzava la situazione venne abbordato da una tipa. Le labbra sguaiate da troppo rossetto, la camminata incerta. Era senza il minimo dubbio completamente ubriaca. Dopo una breve conversazione riuscì abilmente a svincolarsi. Non fu altrettanto abile con la seconda che, per la verità, pur essendo forse un po’ attempata, era decisamente più affascinante. In fondo poi era lì per quello. Non si era mai voluto legare affettivamente a nessuna donna, quando sentiva l’urgenza preferiva comprarne la compagnia. Trovava che quel suo comportamento fosse molto più rispettoso dei sotterfugi e delle bugie che regolano i rapporti di coppia. Mentre parlava con la donna sentì salire l’eccitazione. Aveva un paio di gambe affusolate, le calze a rete e le scarpe di vernice rossa con i tacchi a spillo. Se la immaginò nuda con solo le scarpe ai piedi. Non vedeva l’ora di sdraiarsi con lei. Discussero brevemente del prezzo e delle modalità, poi uscirono. Come li vide, la luna gonfiò il petto mostrando tutto il suo lato più romantico, ma lui, come al solito e a ragion veduta in fondo, non gli dette alcun valore. Quasi indispettita, tornò al riparo degli scuri nuvolosi di cui era circondata. La donna e il tipo che discuteva col lampione si fecero un cenno d’intesa. Lei sorridendo, lui emettendo un fischiettio. Che volesse dire con quel suono, non è dato sapere ma, forse, tanto pazzo non era. Con la donna al suo fianco camminò con il passo ancora più leggero, pregustando le acrobazie sessuali che lo attendevano. Era quasi giunto a casa quando avvertì una fitta allo stomaco e dovette fermarsi un attimo appoggiandosi ad un auto parcheggiata sul marciapiede. Il dolore passò quasi subito. Istintivamente diede la colpa al bicchiere di whisky trangugiato.
I due nell’auto sobbalzarono. Due volte in una sera era decisamente troppo. Videro la coppia rincasare e sorrisero tra loro immaginando il tipo di compagnia che l’uomo aveva rimorchiato. In ogni caso la serata si era conclusa. Anzi, dato il movimento, forse valeva la pena cambiare appostamento per la volta successiva. Tanto si sa che le notti non sono tutte uguali. Questioni atmosferiche a parte, c’è la faccenda degli stati d’animo che cambiano. Talvolta fanno vedere fantasmi dove non ci sono, altre volte spingono l’incoscienza a sottovalutare gli eventi. Quella mattina Francesco si era svegliato di malumore. Aveva dormito male, il sonno disturbato da incubi di passaggio, strane e funeste visioni. Al risveglio però non gli diede la minima importanza. Non credeva nei presentimenti così come nelle superstizioni. In effetti non credeva in un sacco di cose. Non sopportava gli oroscopi, le religioni dogmatiche, i politicanti ed altro ancora. Del resto, quel malumore si era dissipato alla voce di lei per poi scomparire completamente al primo contatto delle sue labbra. Avevano fatto l’amore. Ma quella sera c’era stato troppo traffico. Già fare l’amore in auto è scomodo, se poi ci si deve preoccupare d’essere interrotti da curiosi o peggio, non è il massimo. Prima c’era stato lo sguardo indagatore di quell’uomo, poi un gatto era saltato sul cofano, infine di nuovo il tipo, questa volta in dolce compagnia, che si era appoggiato alla vettura. Decisero di ricomporsi e di tornarsene a casa. Ma quando i giovani decidono di smettere le loro effusioni, in realtà non cessano affatto. Mentre Francesco guidava, Lucilla gli accarezzava i capelli e anche qualcosa d’altro. D’improvviso da una scalinata sbucò un gatto che gli attraversò la strada. Francesco sterzò all’improvviso e l’auto perse il controllo. Piroettò su se stessa fermandosi al centro di un incrocio. Il camionista dell’autotreno che transitava in quell’istante non fece neppure tempo a rendersi conto di quanto avveniva. Calpestò la vecchia carretta, interrompendo per sempre quelle giovani effusioni…
Quella sera si era procurato uno spuntino veramente delizioso sottratto con felina astuzia a un’ingenua vecchietta che aveva messo la carne a scongelare sul davanzale della finestra. Stava tranquillamente mangiucchiando la sua refurtiva quando avvertì i passi di quell’uomo. Passi leggeri. Fu attratto dal suo odore perché lo percepiva sbagliato. Tutto, in fondo, era sbagliato. L’odore, l’uomo, la notte. Ma queste sono cose che un gatto non può capire. Istintivamente gli lanciò miagolando un avvertimento che l’uomo lasciò cadere nel nulla. Terminò il suo pasto e saltò sul muricciolo. C’era qualcosa di strano nell’aria ma era indefinito, confuso a suoi sensi. Qualcosa lo attirava oltre la strada, verso una zona di quell’isolato per lui inesplorata. Ridiscese a balzelli i gradini mentre una coppia usciva dal locale. Il tizio che odorava di sbagliato in compagnia di una femmina puzzolente della sua specie. Odiava quel tipo di animale. Infestava l’aria impedendogli di percepire altro. Non poteva sapere che quell’odore intenso e dolciastro gli aveva temporaneamente salvato la vita. Nel sottoscala si strofinò il muso con le zampe quasi ad allontanare l’odore della donna dalle sue vibrisse. Poco a poco l’olfatto gli ritornò libero e, con l’olfatto, l’inquietudine di prima. Una gatta. Una gatta in amore lo stava chiamando a sé. Salì di corsa i gradini e attraversò la strada senza porre la minima attenzione al fatto che stava passando un auto. Il conducente scartò di lato e lui si ritrovò sul marciapiede opposto senza un graffio. I gatti hanno sette vite. Non curante dello schianto che avveniva alle sue spalle, perso nelle bramosie d’amore continuò la sua rincorsa. Un giardino. L’odore più intenso. Anche un altro odore. Attento, gatto, quante vite hai già consumato? Perso dal richiamo amoroso s’insinuò tra le inferriate del cancello ed entrò. Sul terrazzo una gatta lo stava aspettando. Femme fatale. Un secondo dopo aver avvistato la sua bella, due potenti mascelle lo afferrarono poco sopra le scapole. Risoluto nel vendere cara la pelle, si rivoltò come una furia piantando le unghie sul muso del cane che, a malincuore dovette lasciare la presa. Ora i pensieri amorosi non contavano più, l’unico istinto rimasto riguardava la fuga. Corse via, verso il suo sottoscala. La ferita però non gli consentì di allontanarsi di tanto. A fatica raggiunse l’altro lato della strada per andare a morire tra le gambe dell’unico uomo che aveva considerato amico…
Il vento calò d’improvviso. L’uomo smise di litigare con il vecchio lampione a forma di fungo e si chinò. Il rantolo dello sventurato felino richiamava un altro rantolo ben più grande e nascosto. Si rialzò allontanandosi quasi fosse indifferenza. Ma non era indifferenza, era destino. Il cavalcavia distava tre chilometri, da percorrere lentamente con uno strano sorriso disegnato sulle labbra. Vide la sua amica prostituta uscire da una casa con la faccia sconvolta di chi ha appena visto un fantasma. Ma non ci fece caso, non avrebbe fatto più caso a nulla. Le rotaie lo stavano aspettando. Tutti i pensieri di una vita lo affrontarono in quella traversata. Fra i tanti anche piccole briciole di cose buone, qualche sorriso, qualche parola non dimenticata. Mentre si avvicinava alla meta, piano piano anche la sua mente si riavvicinò a lui. Sorrise. Come quando si incontra un vecchio amico che non si vede da tanto, troppo tempo. Quella mente confusa da tanto, troppo vento… Accarezzò le rotaie prima di sdraiarvisi sopra. Niente vento. La terra cominciò a vibrare. Dapprima solo un leggero tremolio via via crescente che si concluse in un boato sordo. Poi il silenzio…
Nella falsa intimità della camera da letto, l’uomo dal passo leggero, nudo con i soli calzini ai piedi, ondeggiò sinuoso sopra la donna, nuda con ai piedi le scarpe di vernice rossa. In pochi attimi raggiunse il piacere, dopo di che cadde pesantemente su di lei… Inizialmente fu il peso sul torace, poi si accorse che qualcosa non funzionava. C’era un che di stonato in quel silenzio, in quel non ansimare tipico di un uomo dopo il fatto. Due dita sulla carotide destra e la realtà le si mostrò con tutta la sua spietata evidenza. Il panico, la rabbia e la paura gli rovistarono nello stomaco.
Prese il telefono e fece per chiamare aiuto ma poi si trattenne. Non voleva guai. Non più di quelli che la sua vita già gli presentava ogni giorno ed ogni notte. Cercò nella semioscurità i vestiti per poi indossarli rapidamente. Aprendo appena la porta scrutò la strada. Non passava nessuno. Fece un respiro profondo e se ne andò…

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