mercoledì 30 settembre 2009

settembre ancora




Ieri per un caso davvero fortuito (dovevo scendere e poi salire invece resto lì, fermo come un mammalucco che si perde a non pensare), m’imbatto in Luciano: solita faccia da culo, pochi capelli in gran parte canuti e quel sorriso bastardo che un poco ti sfotte e un po’ ti seduce.
Volti distorti e distanti percorrono arresi sentieri.
Mondi nascosti sottovento s’adombrano appena di una certa malinconia, non più di quella che costantemente mi porto appresso.
Ritorno a un settembre già stato, nell’aria un odore sottile di mele e di acini d’uva. Giorni contati, d’accordo, ma dal sapore migliore.
Ricordo l’incontro che feci con questa faccia da gatto con il raffreddore che ancora purtroppo ritrovo quando trovo il coraggio ed affronto il riflesso.
Ma se devo spiegare il motivo per cui mi sorprendo a indagare tra quelle fessure smagliate, proprio ora che m’appresto ad attaccare col dito indice della mano destra, la sinistra impegnata a torturarmi l’occipite, un ossidato pulsantino d’ottone, non saprei dare risposta.
- Sì?
- Buongiorno signora, sono Lecconi…
- Vieni, vieni. Ti stavamo aspettando. Quarto piano.
Entro nell’androne di un vecchio palazzo marchigiano, dove marchigiano non sottintende affatto uno stile architettonico, bensì una specifica topografica.
Alle mie spalle il vecchio portone si richiude con un miagolio da cinegiallo; un istante a decidere tra scale e ascensore, quindi mi avvio, uno scalino alla volta che un’immagine all’altra accavalla.
E l’odore di chiuso.
E il silenzio che copre le risa.
Sfuggi se vuoi.
Nasconditi pure, per quanto, non pare che nulla sia molto efficace.
Così t’allontani.
Ad un altro settembre, ad un altro coraggio, un sogno o un colore che hai avuto per mano e ti è parso sottile, fin troppo sottile per tenerlo con te.
Ed ora lo cerchi.
Ma dove?
Ed anche se fosse, non giunge un po’ tardi al portone?
Sul secondo pianerottolo un’anziana signora se ne va di ramazza, una vecchia vestita da vecchia che respira da vecchia.
Mi getta un’occhiata ben poco benevola.
Il buffo è che anche quindici anni fa, quando venni a trovare il prof. l’ultima volta, era li che spiegava le forze strofinando nel marmo.
Forse un po’ meno vecchia e, se ben mi rammento, pure meno gentile.
Anche allora avevo necessità di un incontro, di un silenzio, di un appiglio cui aggrappare i pensieri.
Era andata così: consumati tre giorni a fronteggiare il vento, il corpo una statua dal volto arcigno, senza che nulla avvenisse.
Il sole si era comportato da sole di fine estate, i passanti si erano tutti identificati nella media gaussiana del passante tipo: corpi in bombetta su uno sfondo di nuvole.
Ma qualcosa cambiò.
Ad un preciso istante, di quelli che sorgono al seguito di una scomoda idea, mi liberai di quel sentimento avverso che mi aveva sequestrato al mondo.
Un attimo solo, trattenni il respiro, un respiro profondissimo, maledettamente conscio della futura apnea e mi diressi velocemente, senza sapere neanche io il perché, a casa del prof.
Ricordo le sue parole, allegre e severe, mi permisero di intraprendere quel viaggio un po’ troppo pindarico che infine ha portato a quello che sono:
“devi accettare la sconfortante idea che la vita è quella che vedi, quella che vivi e non quella che tanto fervidamente immagini.
Quando raggiungerai questa consapevolezza, inevitabilmente qualcosa nella tua mente accadrà.
Solo allora per ogni avvenimento che sarà tetro e spento potrai attingere a quel meraviglioso crogiolo di fantasia accesa e sublime che è in dotazione ad ogni uomo.”
Tento di proseguire l’ascesa e forse lo faccio, ma fastidioso continua, ostinato rovella il pensiero.
D’accordo, Luciano, m’arrendo, dimmi che vuoi.
Che mi vuoi raccontare?
M’insegui, circondi i miei attimi e subito dopo mi sfuggi.
In vent’anni ti avrò visto tre volte; in ogni occasione mi hai rotto le palle con racconti noiosi, narcotizzanti, sulle tue donne, sui tuoi grovigli, pieno di te, dei tuoi vizi e di quei tic maledetti.
- Settembre.
- Come dici?
- Settembre.
Come sempre settembre transita indifferente al nostro sguardo che sia o non sia consapevole della nostra caducità; è la qualità dei suoi giorni che pregna i pensieri.
Ma quale ruolo tu abbia, Luciano, in questo disagio, ne sono all’oscuro.
Si affaccia alla mente più spesso di quanto dovrebbe, e non so se dovrebbe, con quel suo insinuarsi tra i salti e le risa.
Ho una strana sensazione, come se i miei ricordi siano solo presagi di un tempo a venire, che quei giorni di quando le corse sollevavano le gambe fino al cielo debbano ancora arrivare.
La mamma di Stefano aveva occhi azzurri piccoli, piccoli, come fessure.
E un animo semplice.
Mani callose raggrinzite dal duro lavoro nei campi, una schiena incurvata e così pochi denti che quando rideva pareva una strega.
Quando la conobbi doveva avere all’incirca trentacinque anni ma ne dimostrava settanta.
La mamma di Stefano aveva occhi e cuore solo per lui, lui che era il più piccolo, così intelligente, con quel sorriso da simpatica canaglia.
Luciano, di questo strano e ossessivo amore materno ha sempre sofferto, covando una forma di gelosia nei confronti del suo fratellino fin troppo sfilacciata e rancorosa.
Chissà se è questo il motivo per cui è sempre stato un gran figlio di puttana mentre suo fratello era un tipo buono, dolce e allegro.
La mamma di Stefano morì una mattina piovosa di febbraio e molte cose, ineluttabilmente, non furono più le stesse.
Io non so se fu questa la ferita che condusse Stefano in quella strada senza uscita, con sosta per decesso anticipato.
Non so se una ragione in queste cose vada cercata o, più semplicemente, la vita sia da accettare così com’è, senza tante spiegazioni.
Fu tre giorni dopo la morte di Stefano che andai a trovare il prof. Miratelli.
Ora credo di sapere perché Luciano mi saltella nella mente: è il mio rimorso.
Io del resto sono il suo…
Nessuno dei due si è mai potuto perdonare di non aver fatto l’impossibile, a volte manco l’indispensabile od il minimo.
Troppo presi dalla vita: il lavoro, lo studio, le compagnie piacevoli.
Stefano non poté contare sull’aiuto di suo fratello né su quello del suo migliore amico, quel bambino con la faccia da gatto col raffreddore che aveva conosciuto una mattina di settembre al di là di una siepe di biancospino; come visitando uno specchio.
Così settembre mi richiama e scivola al mio fianco.
Stende quei suoi giorni, tutti in fila, uno dietro l’altro e li racconta.
E nel racconto li fa belli.
Ma io li osservo come sono veramente e, sinceramente, non so dire quanti ne tornerei ad affrontare senza timore, ora che non sono più in possesso di quell’illogica follia.
Ho compreso il motivo per il quale Luciano è qui con me mentre senza fretta salgo queste scale e affronto quel rimorso; presumo che anche lui affronti il suo ogniqualvolta i nostri giorni stringono alleanza per farsi compagnia.
Lo so che quando mi guardi dritto dentro gli occhi mi rimproveri le assenze, le troppe mie assenze.
Io quando invece entro dentro gli occhi tuoi lo faccio solo per capire come fai ad ostentare sul tuo viso quell’insolito sorriso.
Ora che conosco la ragione per cui mi rovisti i pensieri, devo chiederti un piccolo favore: allontanati, se puoi, dalla mia mente, Luciano.
Coraggio, levati dai coglioni!
La porta socchiude ed incrocio lo sguardo di una donna che deve essere stata molto bella da giovane: occhi grandi luminosi e un bel sorriso.
L’età e la vita si sono industriate a spegnerlo ma pare che, per ora, non abbiano potuto molto.
- Luigi ti aspetta nel soggiorno…
Entro adagio, adagio, quasi scivolo, forse un po’ troppo timoroso.
Poi lo vedo.
Una coperta a scacchi dai colori incongruenti (ma cosa è congruo ormai, cosa mai lo è stato?) per non mostrare gli arti lesi.
Come di pietra, insisto sulla soglia, ma è solo un attimo.
La voce è quella che t’immagini, un po’ fiacca, le parole strascicate, ma lo sguardo è proprio quello che speravi.
E tutto diventa più facile.
- Allora, cot fè ma le? Siediti dai e racconta.
Racconta…
La vita stessa è un serbatoio di racconti, un alchimia di sensazioni ed emozioni avvicinabile solo a chi sa coglierle.
Ci si deve saper stupire e poi commuovere; saper scendere e salire le bassezze e le alte vette delle sue virtù.
Passando per un parco dove nel tempo, il tempo stesso più volte mi ha dato appuntamento, raccolgo in pochi istanti tutti quei momenti che hanno deciso la mia storia.
Colgo in essere un disagio misterioso, che misteri e nascondigli poi non ha, solo attimi.
Attimi ora struggenti, ora patetici, ora esplosivamente allegri.
Ma mai indifferenti, mai inutili.
Un bel respiro, prendo coraggio e parto.
- Le ho portato questo…
Appoggio su un tavolinetto tondo con intarsiata una scacchiera il motivo del mio passaggio: una busta gialla che lui osserva poi, senza una minima occhiata interrogativa, apre, quasi scartandola come fosse un cioccolatino.
Lo sapeva, lo ha sempre saputo, lui prima di me.
Aspettava soltanto arrivasse il momento, questione di tempo.
Senza che nessuno dei due nulla possa proferire, che bisogno in fondo non c’è, ecco che s’incanta in una profonda lettura, quasi un sonno oppure, chissà, un viaggio.
Cinque minuti, venti, un ora o più?
Non cado nella tentazione di spiarlo nella mimica, nel suo usuale crucciare il sopracciglio, nel torturarsi il lobo o nel sorridere tra se.
Vorrei ma non vorrei sapere cosa sta pensando.
Ad un certo punto, in un certo istante riarso ci guardiamo, entrambi con le labbra coricate in un sorriso.
Sai che ho scritto anch’io delle cosucce?
Non sono state molto apprezzate, per la verità m’importava ben poco. Sostenevano che quanto scrivevo non aveva nessun tipo di trama. A sentire loro ignoravo i fondamentali, buffo no? Una scultura ha una trama? Un dipinto segue sempre tracciati già percorsi? Guarda la vita, la mia per esempio: seduto senza possibilità di muovere il corpo, e cosa pensi? Che sono finito? Che non ho più trama? Questo tuo racconto non ha trama, eppure emoziona, ha ritmo. E’ violento e delicato, dolce ed amaro, sereno e rabbuiato, come l’animo umano, come le sue emozioni. Senza tempo, senza spazio, senza dimensioni che siano d’appiglio.
Entra dentro la stanza, silenziosa, quasi furtiva, con quei suoi occhi sorridenti.
Un vassoietto con un bicchiere d’acqua e una compressa rosa.
Non dice nulla, neppure lui, nemmeno io.
Mi alzo, stringo quella mano debole ed anemica.
Lui si china e con l’altra mano mi afferra il polso.
- Se vuoi, quando vuoi, vieni a trovarmi e portami i tuoi lavori.
Sarò un rottame ma la mia mente funziona ancora e si ostina nel continuare ad essere. Resisto, stranamente disponibile ad assaggiare le emozioni.
Così settembre mi getta in faccia la sua aria fresca della sera.
Mentre cammino penso a questo giorno e, pur senza esserne sicuro, mi pare di comprendere il suo volto.
Perciò m’arrendo a questo vento che m’abbraccia e mi trascina fino al fondo della spiaggia dove il mare riconosce le mie scarpe.
Accetto l’inquietudine e dissolvo.
Di quel settembre un altro giorno.

domenica 27 settembre 2009

Ciao Coglione!



La tizia del piano di sopra urla come un’aquila a quel teppista di suo figlio. Capite bene che non è una novità, quella non fa altro che urlare, dire che non sarebbe neanche brutta, ma, Cristo, che razza di rompicoglioni! Il figlio è un idiota esemplare, di quelli che persino ai nostri giorni è arduo incontrare. Idiota, maleducato e teppista.
No, la vera notizia si evince dalla classifica provvisoria del campionato di calcio: c’è l’Inter in testa. Lo ammetto, non sembra neanche verosimile. Ma, tranquilli, mancano ancora quattro giornate alla fine del campionato.
Comunque sia, non vi ho certamente disturbato per dirvi queste cosucce. Se potete, pazientate un attimino, che devo sbrigare una faccenduola. Tra parentesi, odio quelli che usano questa espressione: “attimino”. Che si può dire “funeralino”, “tradimentino”, “eschimesino”? E allora? Vi sono tanti stadi di catarsi mentale.
Sarò da voi tra poco. Nel frattempo sedetevi, il divano è nuovo, l’ho scartato la scorsa settimana. Bisogna pur spenderli i soldi che si guadagnano, altrimenti che si lavora a fare? Gradite un caffè? Sono spiacente, ma tengo in casa solo quello all’americana, sapete, ho una gastrite appiccicosa. Potete accendere il televisore, magari ascoltarvi un CD. Ehi, cosa fa? No, no, quelli preferirei non li toccasse, li ho posti per l’appunto più in alto perché non voglio farli neppure sfiorare da mani sconosciute, capisce, sono dei Beatles, mica scherzi. Perché noi, in fin dei conti, non ci conosciamo. Affatto. Voi, tra un po’, avendone la voglia e la giusta pazienza, potrete scoprire qualcosa sul sottoscritto, ma io, di voi, gioco forza non potrò mai scoprire nulla. Sono un uomo di carta, in fondo, mica altro. A ben pensarci sono innumerevoli le sorgenti della nostra ignoranza.
Ecco fatto, sono qua. Dovrei narrarvi di quel periodo schifoso che ha modificato, in peggio, l’andamento della mia esistenza, tizia di sopra a parte, lei ha un codice costante. Farò precedere il racconto degli avvenimenti passati da questo episodio capitatomi la scorsa settimana, non fosse altro che mi tormenta non poco. Poi andrò senza meno al dunque. Suppongo conosciate bene il locale sulla via Emilia “Gun’s Flower”? No? Avanti, è circa duecento metri dopo il ponte, di fronte a quel negozio d’articoli regalo per sporcaccioni. Va là, va là, che lo sapete dov’è! Intanto devo dire che non si capisce da dove prenda origine un nome così stupefacentemente incongruo. Mi pare che una volta vi fosse un complesso Rock, o Beat, o Pop, o chennesò, che aveva un nome simile. Forse.
Venerdì ero lì con Claudio, come il solito. Ci andiamo per fare due chiacchiere e giocare a stecca, magari berci pure una birretta. A farla breve, che io, lo so, la tiro sempre lunga, faccio, mio malgrado, la conoscenza di Michele. E’ un camionista. Lo stomaco prominente ed una più che probabile invaginazione cerebrale. Capirete poi, forse, ammesso ch’io sia in grado di ben spiegarmi, perché vi cito questa situazione. Attraversa la mia mente troppo spesso perché sia libero d’ignorarla. L’unica possibilità per sbarazzarsene, è parlarne. La si esorcizza, o la si anestetizza, occludendogli ogni spazio per una più severa infiltrazione. Allora, vi stavo dicendo di Michele, quello con il cervello di una gallina depressa e l’alito da Guinnes. Pare, secondo alcune indiscrezioni, che sia lui a fornire la componente odorosa miscelata al gas metano impiegato nell’uso domestico. Per avvertire le fughe. Possibile che, oltre ad avere un’emanazione odorosa più che riguardabile da parte della propria cavità orale, questi soggetti si ostinino anche a volerti parlare il più vicino possibile, a non meno di due centimetri dalle tue narici, cosicché l’olezzo le pervade efficacemente? L’avevo già adocchiato altre volte, evitando di fare la sua conoscenza. Non è mai troppo presto. Quella sera indossava una camicia a fioroni, con due ampie chiazze subascellari, probabilmente per annaffiarli. Ubriaco. L’alcool, quando vince e troppo spesso riesce, piega i neuroni nelle più svariate forme di sottomissione: collera, depressione, irrazionalità. Michele era nella fase saputello–logorroica.
- Disturbo ragazzi?
- Figurati . . .
Risposta stracolma del solito imbarazzo di quando ci si trova a confrontarsi con qualche personaggio indesiderato di cui si teme l’irrazionalità del comportamento. In qualche modo assomiglia ad un mio amico che non vedo da tempo. Roberto, quello che due anni fa è uscito di casa la mattina alle otto baciando la moglie ed i figli, poi se ne è andato a Roma, è salito su un aereo ed ora vive a Città del Capo. Da bambini eravamo vicini di casa. E’ sempre stato un tipo strano, un grandissimo maiale in fatto di donne, ma anche un tipo gioviale e decisamente simpatico. Michele, in verità, è solamente un maiale.
- Questa sera, ragazzi, sono giunto ad un’importante conclusione: le donne sono tutte puttane. Fingono di provare piacere e noi, cretini orgogliosi, gonfiamo il petto come stupidi piccioni. Io, che le prostitute, modestamente, le conosco piuttosto bene, almeno quanto loro conoscono le mie tasche, lo posso ben dire.
Poi ci parlò di sua moglie, della suocera con la quale aveva combinato non so quale porcata, di una tipa che aveva palpato. Tutte troie, tutte anorgasmiche.
Se permettete, dato il tipo, non ci sarebbe neanche da stupirsene. Dopo un’interminabile ora di soliloquio, è crollato sulla seggiola, la testa sul tavolino a guisa d’anguria. In cinque minuti si è acceso un roboante motore sprigionato dal suo respiro dormiente. Continuare a giocare era impossibile. Siamo tornati a casa, la mente inseguita da quelle frasi vomitate sul piacere simulato.
La tizia di sopra ha iniziato un diavolerio appena il marito è rientrato. Si lamenta, sbraita, minaccia.
Povero cristo!
Sfido che lavori fino a tardi. Ci siamo conosciuti da ragazzi, era una brava pellaccia, allegro, ciarliero. Guardatelo ora: come infila le chiavi nella serratura di casa, assume l’aspetto, il viso intristito, le spalle piegate, come quello che immagino sia la visione di un condannato all’ergastolo.
Scusatemi, è che io tendo a divagare. Adesso sarebbe il momento di narrarvi dell’americano. Trattandosi, direttamente o indirettamente, anche di me, è una storia complicata, perciò, vedete di non perdervi. Lavoro, oramai da vent’anni, in una ditta che esporta tubazioni, soprattutto nell’Asia centrale ed in medio oriente. Sarei ingegnere meccanico ma, alla fine della fiera, mi occupo più che altro d’organizzazione tecnica e di relazioni con i compratori. Quattro anni fa Rosi, Umberto, il grande capo, mi manda a chiamare.
- Senti Samuele, tra un paio di settimane verrà qua da noi un esperto di management. E’ un fottuto americano. Si dovrebbe chiamare… Ma dove cavolo ho ficcato quel fax? ‘zo, tutte le volte che cerco una stramaledetta cosa non la trovo e poi, tutte le altre volte che non mi serve a niente, spunta fuori per rompermi le sfere. Ah, eccolo qua. Dunque, si chiama Paul Denver, di Dallas. Sai, no? Quella città dove era ambientato quel telefilm famoso? Bravo! Proprio lì. Darà un’occhiata alla nostra azienda. Dovrebbe fornirci delle indicazioni su come migliorarne la conduzione. Te ne occuperai tu. Key point! Non portarlo qui dentro neanche per sbaglio, non lo voglio conoscere, non voglio sentire il suo odore, assolutamente no. Tu lo sai bene, sono comunista io. Gli americani mi stanno tutti sulle balle.
Già! Il comunista… L’essere meno proletario e più miliardario ch’io conosca, ma sempre comunista. Rosi è così, pensa soltanto ai soldi e a scopare, ma non vuole rinunciare al suo essersi fatto da solo, ironia della sorte, proprio come farebbe un vero americano. Quando vengono i clienti arabi, quando c’è da organizzare un certo tipo di situazione, state sicuri, Rosi è in prima fila. Tre mesi fa è venuto il sultano, quello che possiede sette mogli, la più giovane ha diciassette anni, mentre lui è un tipo piuttosto vetusto. Orbene, Rosi si è volatilizzato per quasi dieci giorni. Con il sultano. E’ facile. Convoca qualche hostess. Prenota la solita suite. Poi fanno tutte le porcate che vogliono, con tanto di ricevuta da scaricare sotto la voce: relazioni con la clientela. Più volte gli ho fatto notare che consideravo questa manovra una frode bella e buona ai danni dello stato. Lui, di rimando, si scusava dicendo:
- Se fosse un governo dei “nostri” non lo farei, ma con questi loschi figuri, è più che legittimo.
Poi il governo di sinistra è arrivato, ma Rosi non deve essersene accorto. In ogni caso, quando c’è da seguire una fase progettuale o, come quella volta, far da spalla ad un tecnico, americano non americano, comunista non comunista, lui svicola.
Così mi dovetti sciroppare l’americano.
Quando lo vidi al check point, a malpensa, aveva proprio l’aspetto dello statunitense rampante: dentoni alla Kennedy, occhi azzurri, capelli corti e biondi, alto e muscoloso. Tutto il mio contrario. Io, tuttalpiù, avrò l’aspetto dell’italiano medio: scuro, basso e flaccidino. Va detto, per onor del vero, che in prima fase mi fu piuttosto simpatico. Credo che la situazione, intendo quella personale con mia moglie, fosse fuori controllo già da prima, ma ritengo anche che la settimana successiva iniziò il disastro. Paul era un tipo molto gradevole pertanto pensai di invitarlo a cena presso un ristorante piuttosto in voga, dove avrebbe potuto apprezzare la cucina italiana. Vi condussi anche Federica, mia moglie. I bambini rimasero con la tata. Nel bel mezzo della serata ricevetti una telefonata. Era Claudio. Piangeva. Dovetti abbandonare la compagnia. Lasciai le chiavi dell’auto a Federica con l’onere, seppi poi quanto poco gravoso, di restare appresso al nostro ospite e presi un taxi.
L’inizio della fine, anche se la fine era già stata scritta da tempo. Rincasai tardi, sul fare del giorno. Mi spogliai e, senza indossare il pigiama mi coricai. Disteso nel letto guardavo il soffitto che andava illuminandosi con l'alba. Doveva mancare poco alle sei poiché la caldaia non era ancora partita e quegli stupidi merli cantavano con tutte le note possibili le loro stupide storie.
Gianna era morta.
Un incidente.
Aveva la macchina piena zeppa di sporte colme di spesa.
Era appena uscita dalla parrucchiera, le unghie laccate, un completo di pizzo che le stava divinamente, ma era morta ugualmente.
Gianna era la bellissima moglie di Claudio che ora rimaneva da solo, solo ma con due figli. Claudio è da sempre il mio migliore amico, abbiamo fatto i bambini insieme. Le nostre mogli erano divenute amiche, fin troppo. Andavano congiuntamente in palestra, a lezione d’aerobica e a tutta una serie d’iniziative non sempre lodevoli. Lasciamo stare che per scuola io intenda ben altro.
Ho scoperto, poco prima di quel fatale incidente, che erano entrambe molto attratte dal maestro di aerobica. Pare che Gianna sia stata più volte, come dire, contraccambiata.
Non mi è mai parsa una cosa carina da rivelare al mio amico…
Come il solito mi sono perso. Vi stavo dicendo dell’americano…
Nella mia città c’è un soggetto un po’ folle che viene chiamato proprio così. Veste alla gringo. Si è comperato una chevrolet bianca con le finiture oro, stile “Elvis”. Il suo aspetto è decisamente buffo, per non dire patetico. Porta sul testone pelato un cappello bianco borchiato, ai piedi un paio di stivali degni di Jhon Waine ed al collo uno stupido cravattino texano. E’ soltanto una macchietta. L’americano vero, purtroppo, è quello che è stato appresso a me quei giorni di maltempo, come serpe in seno.
La tizia di sopra si sta facendo sbattere sul letto matrimoniale come tutti i sabato pomeriggio dopo le sei, abitudinaria e puntuale come un orologio svizzero. Urla come uno cui stanno strappando le tonsille. Come si estraevano una volta.
Senza anestesia e molto ghiaccio.
Diciamocelo, è l’unico suo momento urlante che non mi reca danno. Se non fosse per il solito tarlo. Finge? Simula? Non sono affari miei, tizia di sopra, ma se fingi, in questo caso, fallo più piano!
Ho fatto del te freddo, volete favorire? Forse non è stagione, quando mai lo è stata? ‘Stamattina c’erano solo quattro gradi, io lo gradisco ugualmente. Non fate complimenti. E’ qui sul tavolino coi bicchieri a fianco. Poi fate voi.
Continuiamo. C’è rimasto ben poco da dire in fondo. Un bel, ironico, giorno, torno, da dove, a casa, quale casa e mio figlio, mio figlio?, all’epoca aveva solo nove anni, mi dice:
- La mamma ha fatto fagotto!
- La mamma che?
Com’è possibile che un ragazzino si esprima così irriguardosamente nei confronti della vita e di un istante così drammatico è, ovviamente, insindacabilmente, lapalissianamente, inconcepibile. Ad ogni buon conto, rendeva piuttosto bene l’idea. Già, se ne era andata, con l’americano. A Dallas. In Texas. Goodbye.
Ed io? Feci la solita parte indicata per queste occasioni: finsi di cadere dalle nuvole, un fulmine a ciel sereno. Ma tutti, me compreso, lo sapevano, chi non ne era certo, l’aveva comunque intuito.
Che le cose tra noi non andassero più un gran che, era evidente. Quante volte avevo avvertito il fastidio che provava nei miei approcci amorosi. Probabilmente quando lo facevamo fingeva. No, attenzione un attimo, ne sono certo. Ricordo fin troppo bene come era fare l’amore all’inizio tra noi. Lo ricordo con intensa emozione e follia, quella follia che non esisteva, oramai, più da tempo. Sapete com’è, tentiamo, per comodo, pigrizia o assuefazione, di non vedere quello che salta invece agli occhi.
La sostanza unica è che lei se ne è andata lasciandosi alle spalle solo una misera letterina, scritta come la compongono i bambini deficienti, con mille errori d’ortografia e calci in culo alla sintassi. Poi, per tre anni, il nulla completo, il vuoto più cupo.
Quando ci ripenso, quello che mi lascia stupefatto è l’indifferenza elaborata dai miei figli in quell’occasione. Hanno chiesto di mamma solo poche volte accontentandosi delle mie spiegazioni disorientanti. Ho fatto quello che potevo, capirete, c’è n’è da fare per due mocciosi. Per la verità, li amo così tanto che non mi è costata troppa fatica.
La tizia di sopra ora bussa alla tizia di sopra–di sopra. Suppongo per il solito motivo: il volume del televisore. Che volete? E’ sorda come una campana. Vecchia, sola e sorda. Ah, già, dimenticavo, anche zitella. Non ci si accorge mai del disturbo arrecato al prossimo mentre siamo ipersensibili per quello subìto.
Come in auto. Se fai una scorrettezza te la ridi dicendoti: “Quanto sono furbo”. Se un altro fa altrettanto ti attacchi al clacson ergendoti a giudice dell’umanità.
Io non tocco mai il clacson.
Era sempre motivo di diverbio con mia moglie…
Per tre anni non s’è vista né sentita. Per quel che ne sapevo poteva benissimo essere defunta. Non che l’abbia mai pensato. Mia madre le ha vomitato dietro ogni forma di cattiveria possibile. Io no. Ero come in trance. Immaginavo i colleghi al lavoro, il fornaio, la fruttivendola, la gente del quartiere che se la rideva.
Eppure, non covavo né rabbia né frustrazione.
Vi dicevo di Claudio.
Io e lui, in poche settimane, ci ritrovammo entrambi senza moglie e con due pargoli a cranio da crescere ed accudire. Abbiamo unito le forze. Da ragazzo, Claudio, era un tipo timido ed introverso. Con le donne era un’autentica frana, possedeva però un’attrattiva irresistibile. Qui ora mi gioco definitivamente il pubblico femminile. Lo so, lo so, è un luogo comune ma, è forse colpa mia se è anche un’incontrovertibile verità? Chiamiamolo assioma, va meglio? Claudio era incredibilmente, indicibilmente, spudoratamente facoltoso. Ben inteso, lo è ancora.
Fu accalappiato da quella che divenne poi sua moglie durante la festa di compleanno di una sua lontana cugina. Poco cugina e molto troia. L’Erminia, quella che tutti noi più volte…
Ma questa è una faccenda che non credo interessi gran che.
Gianna se lo portò in bagno e gli fece un servizietto, seppi poi, con i fiocchi e i controfiocchi. E brava la Giannina! Ne rimase tanto estasiato che il giorno dopo le chiese di sposarlo.
Pessima mossa!
Le corna infierite non credo possiedano una numerazione sufficiente per le dita delle mani e dei piedi. Lui, sia come sia, era un uomo felice. Ignorava, o fingeva di farlo. In fondo è la stessa cosa.
Una sera, rincasando silenziosamente per fare una sorpresa ai bambini, ascoltai questa conversazione tra le due donne fedifraghe:
- C’è l’ha così piccolo, ma piccolo… E poi è imbranato. Dopo sei anni di matrimonio non ha ancora imparato come fare ad usarlo!
- In questi casi è importante avere le giuste conoscenze cui attingere nei momenti di bisogno…
- Per quello non ti devi preoccupare…
Già. Poi senti dire dai tuttologi televisivi che le dimensioni non contano e blà–blà, e cì–cì, e cò-cò. Tutti stronzi. Stanno lì soltanto per narcotizzarci e noi beati ad ascoltarli. Ma Claudio sapeva di non essere gran che, pertanto ringraziava la sorte d’esser nato ricco, avendo così potuto accalappiare quella splendida maiala di sua moglie. Deliziava molti uomini, questo è vero, ma lui era uno di quelli. Perché no?
Quante sono le possibilità di lettura delle vicende della vita?
Tornando a me, cosa rimane da dire?
Ho quarantasette anni.
Quando sposai mia moglie ne avevo trentatré, come quelli di Cristo, o come i trentini che entrarono trotterellando a Trento, a quanto si dice. Dopo dieci anni di matrimonio, quella se ne va con l’americano e per tre anni non si dà la minima pena di far sapere se è viva o altro.
Poi, due mesi fa, una domenica pomeriggio, squilla il campanello.
Se posso, la domenica la trascorro in casa. Guardo la TV, ascolto musica leggendo un libro. Adoro gli autori anglosassoni contemporanei, possibilmente dalla scrittura veloce ed innovativa. Talvolta suono il pianoforte, sporadicamente salgo in mansarda e dipingo. Per imbrattare tele necessitano quiete e tempo. Capite da soli che con due ragazzini per casa può essere problematico.
Quel pomeriggio erano rimasti da Claudio a giocare con i suoi figli.
- Te li porto a casa io subito dopo cena.
Così sono salito di sopra e ho sfogato una parte della mia inquietudine. Al trillo del campanello ho pensato: “chi cazzo sarà questo rompicoglioni?”
Il rompicoglioni era Federica.
- Ciao Samuele, posso entrare?
Aveva i capelli tagliati più corti.
Dimagrita.
Bella come sempre.
La feci entrare.
- Sono andata in via veneto ma non c’era nessuno, ho immaginato foste venuti qui per il fine settimana e così...
- Appena possiamo veniamo in campagna, sai, per via della tizia di sopra, certe cose non sono cambiate…
- Già…
Le chiesi a cosa dovevo tanto onore.
Lo feci con tono sarcastico, non studiato.
Tre anni prima mi ero preparato frasi sferzanti da usare per l’occasione, ma in quel momento non mi vennero in mente.
- Vorrei tornare…
Tornare? Da chi? E perché? E poi, da dove? Si mise a piangere. Disperatamente. Mi parve di scorgerne la sincerità.
- Puoi andare in via veneto. Domani ti porto i bambini, poi si vedrà.
Cosa volete che ci fosse da vedere. Dopo neanche due mesi abbiamo fatto l’amore. Forse no, solo sesso. Diciamo che si è copulato, via!
Per tre anni non me l’ero toccato se non per espletare i bisogni fisiologici. Non ero nemmeno sicuro di essere in grado.
Io no, ma lui si. Come lui chi? Lui, il coso, l’aggeggio atto alla copula.
Comunque, coso o non coso, mentre riunivamo i nostri corpi dopo tanta astinenza, solo mia, ovviamente, la tizia di sopra ha preso a battere, immagino con una scopa, sul pavimento.
Non riesco a capire se il suo difetto è parziale o completo.
Di certo, il deficit è dimostrabile.
So bene che non ci faccio una gran figura.
Mia madre è incazzata come una iena. Mia sorella, tutte le volte che mi vede, mi bercia contro male parole, non mi chiama neanche più per nome. Quando mi saluta mi apostrofa così:
- Ciao coglione!
Claudio ha trovato una donna che lo scombussola sessualmente e le ha già chiesto di sposarlo. Quest’estate andiamo tutti insieme in vacanza, in Sardegna. Le due donne sono subito divenute buone amiche. Se i precedenti contano, la cosa non mi garba più di tanto.
Io, dell’americano non ho mai chiesto nulla, non lo farò.
Il venerdì sera vado al Gun’s Flower per giocare a biliardo.
Di tanto in tanto faccio l’amore con Federica. Apparentemente con nuovo trasporto da parte di entrambi. Puntualmente, finito l’amplesso, mi interrogo: “avrà provato piacere o ha finto soltanto?”. Il fine settimana lo passiamo in campagna. Durante la settimana, nel periodo scolastico, abitiamo in via veneto.
La tizia di sopra continua a rompere i coglioni.
L’Inter è in testa alla classifica, ma non mi illudo, mancano ancora quattro giornate alla fine del campionato...

martedì 8 settembre 2009

qualche quadro di follia

70x70
smalto su tela















controcanto



Occhi scuri,
quando schiudeva le labbra
cantava.
Fessure del vento,
gli occhi,
e i giorni,
come rapidi suoni.
Era un autunno
senza riflessi,
senza passi di danza,
senza voce.

lunedì 7 settembre 2009

ernesto "che" guevara


100x100

smalto su tela

sabato 5 settembre 2009

dal cerchio al vento



Perchè un blog... L'idea nasce per comunicare qualcosa a qualcuno.
Indaghiamo intanto sul "qualcosa": non sono un dentista, lo faccio soltanto. Per meglio dire, nella vita oltre a fare un mestiere impegnativo faccio tante altre cose. Se qualcuno è curioso di sapere cosa, può affacciarsi in questa finestra virtuale e scoprirlo.
Per quanto concerne il "qualcuno", onestamente non ho preclusioni, purchè neppure "lui" ne abbia.

La casa editrice Tosca ha pubblicato una mia raccolta di racconti dal titolo: Senza Nome. chi vuole può scaricarla direttamente e gratuitamente dal sito : http://www.toscaedizioni.it/.

Ho rivisto per l'ennesima volta il film: La casa sul lago del tempo. Come? Non avete la minima idea di cosa sia e di che si tratti? Vergogna! Andatevelo a noleggiare poi ne riparliamo...

mercoledì 2 settembre 2009

ppdp


30x30

smalto su tela