mercoledì 23 dicembre 2009

chiudiapri l'anno







dal sottile silenzio al grido del vento
dalla notte d'estate al giorno cortile
muore e rinasce il pensiero di luce
chiude una porta
sorride
aspetta e,
dietro l'inverno, intona un canto
come faceva tuo padre
quando era il tempo delle foglie

martedì 24 novembre 2009

acsé e' và e' mond - dalla raccolta "il bar delle rose"


Luserta – Mo avì santì ach fata fena ch’l’à fat Riziero?
Nasin – L’è mòrt?
L – Eh, propi lò! Prema che vaga int e’ campsent lò, u i nun vò. Bemo, alora an savì gnint!
Muriega – Mo ad che?
L – A sì propi int eì susen vuitar! Ormai ul sa nenca al predi dt fos!
N – Dì só. S’t’e’ da dì un quel, scor!
L – ’Sel t’é prisia? E’ fat l’è quest che que: Riziero l’à tolt só al su robi e in dó e dó quatar us l’è colta.
M – E in du ch’l’è ’ndè?
L – I m’à det ch’l’è andè in India, a fè il figlio dei fiori.
N – A fè che?
L – A dè int e’ cul a i curius! Sut ch’a sepa mè quel ch’us fa? I dis ch’l’à vint di bajoch. Un moc ad boch a zughì a e’ lot.
M – Fat cul! A j ò chera par ló. A i pinseva propi incua. Ò insugnì e’ mi por ba.
N – Che daseva i nomar?
M – ’Sel, tci semo? U n’era miga sioc e’ mi por ba!
L – Ta n’é capì gnint, Muriega! Nasin e pinseva che e’ tu ba, int e’ sogn, u t’aves dè di nomar da zughì a e’ lot.
M – Mo no. Un m’à det gnint. Um ciameva cun al didi int’un fes-c.
N – E csel che vó dì?
M – Boh? Um ciameva e basta. A te int à mai ciamè?
N – E’ tu por ba no. Una volta im ciamet i carabinir in caserma, mo l’è tot un’etar quel.
L – Te, Nasin, ci propi un ignurent! Mo ’sel ch’u j entra la caserma e i carabinir… Amo, va a spas cun che sumar ad Sorcio te!
M – Lesa stè che semo e fam capì un quel: t’é det che Riziero us l’è colta. Ben! Mo la Verdiana ades? La purena l’è arvenza da par lia…
L – Di mo, t’durum? Ta ne sé ch’l’è ‘na vita che la Verdiana las fa muntè da Nereo de’ pont vec!
M – Nereo? Chi, quel dla frota e verdura?
L – Lo, lo…
N – Ci sicur? A me lam pè ’na cazeda…
L – E te t’ci un sumar, dioboni! Ul sa tota Cisena. E pó, s’tal vu savéi, dmenga dop mez dé ch’a sera int e’ fiom a fè un zirtin a j ò incuntrè la Beppa de’ Fabar e la Lumira e al m’à det che l’è acsé. Nenca s’unt pis.
N – A n’ò miga det ch’u num pisa. A m’nun sbat i quajun me. Però a me l’am pè ‘na gran cazeda d’istes.
L – E alora t’ci na testa dura pez che ne un sumar, porca madosca! Ci pez ad quel che là, cum us cema… dai quel ch’un cardeva che e’ Signor e fos arnasù
M – San Tmes?
L – Sé, ló…
N – Tmes o no me a vagh via parché te, Luserta, sgonda me, ci sol una linguaza!
L – E te t’ci un quajon. Va, va. Va int e’ casen!
Nasin us met a caval dla lambreta e us va a ca.
M – Spitì un minud, fam capì ben Luserta. Te t’dì che la Verdiana las fa ciavè da Nereo da un pez?
L – Ben acsé…
M – Fata troja! Cun al doni un s’pò mai stè in pesa.
L – E’ mond e’va ’csé…

mercoledì 18 novembre 2009

giogio smile

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giovedì 12 novembre 2009

monica



ciao
di polvere e vento
per sempre

martedì 10 novembre 2009

congresso sido

Ciao a tutti, sono stato assente dalle pagine virtuali causa stato influenzale e, successivamente per il congresso SIDO avvenuto in quel di Roma lo scorso fine settimana.
I congressi sono quasi sempre un tentativo spesso fallimentare di creare un alone di valenza scientifica al lavoro della società che invece risulta fin troppo spesso un evento meramente politico con ben pochi momenti di crescita professionale.
La SIDO è la socità ortodontica che racchiude le varie filosofie ortodontiche e, come tale, è un pentolone dove c'è di tutto e di più. Perfino il mago oronzo... Vabbè... Uno potrebbe sempre dirmi: "perchè ci vai?". Già... La risposta stà nella carica che ricopro in seno alla SIOB. Essendo consigliere nazionale e istruttore SIOB, non posso sottrarmi.
Un giorno vi racconterò che significa SIDO, SIOB e compagnia. Sì, un giorno, forse...
nel frattempo non ho avuto il tempo di salutare degnamente un'amica che ci ha lasciato...
rimedierò presto
ciao

giovedì 22 ottobre 2009

troppo vento





Apparteneva a quella categoria di persone geneticamente incapaci di registrare i particolari. Nel lavoro esercitava un livello di attenzione e pignoleria tale che lo faceva odiare da tutti i suoi sottoposti, ma negli altri ambiti vagava distratto, completamente assorbito da insoliti pensieri. Rincasava sempre a notte inoltrata, eppure quell’insegna gli era sempre sfuggita. Chissà perché se ne rese conto proprio quella notte. Evidentemente, pur essendo all’apparenza tutte uguali, ci sono notti diverse dalle altre. Forse il vento che rumoreggiava tra i rami alti del viale alberato, forse la luna che ad ogni passo assumeva sembianze dai toni surreali. Forse e forse no. Non per lui. Quello strano individuo dal passo insolitamente leggero non dava peso agli eventi naturali. Un tempo, probabilmente, anche lui doveva essere stato concupito dai colori e dai suoni. Poi la sua mente analitica li aveva catalogati, fissati ed elaborati. Allo stesso modo di una lista dei vini o di un elenco telefonico. Non si lasciava più suggestionare, tanto meno emozionare. Una mente logica, sottile, sola… Da sempre era vissuto cercando di esorcizzare i momenti negativi concentrandosi sulle cose da fare riuscendo quasi sempre nell’intento. Quella sera il marasma interiore aveva trovato la forza per superare gli argini che con tanta determinazione lui stesso aveva alzato a impedire l’incessante flusso delle emozioni. Probabilmente quella sorta di fastidio allo stomaco, simile a un languore ma più acuto, più importuno, era stato determinante nel fargli notare il cartello. Era la vita che si reiterava. Un’indicazione pubblicitaria. Stava lì appesa al nulla da quasi un decennio, a pochi passi dalla sua abitudine. L’avesse individuata prima, avrebbe sicuramente colto l’occasione. Con un finto fare indolente si lasciò guidare verso quel locale notturno. Camminando notò un’auto parcheggiata sul marciapiede. Istintivamente gettò un’occhiata furtiva ai due che si baciavano all’interno. Il ragazzo alzò la testa incrociando quegli occhi sottili e un po’ invadenti. Un attimo. Poi il ragazzo tornò a baciare la sua bella, l’ombra a camminare in direzione di quella sorta di night club malfamato.
Francesco aveva ventun’anni, un semplice lavoro come operaio in una grande e rinomata industria alimentare e alcuni sogni nascosti sotto il cuscino, se ne riappropriava di notte quando tornava ad abbracciarlo. Il sogno più ricorrente era dedicato al calcio. Immaginava di essere un grande centravanti di un’importante squadra che, proprio grazie al suo contributo, si aggiudicava tutto il vincibile. Poi veniva chiamato in nazionale e guidava gli azzurri al titolo mondiale. Sogni. Per deglutire una vita grama e avara. Per continuare a respirare. Tutte le mattine sua madre si alzava poco prima di lui. Gli preparava la colazione con quell’aria da giovane vecchia che lo rattristava immensamente. Sua madre e quel sorriso semplice nonostante la vita. Avrebbe voluto dargli qualcosa di più, magari comprargli un cappotto nuovo e un bel paio di scarpe. Purtroppo non poteva permetterselo, non con il suo lavoro da operaio. Per questo i sogni. Lei non lo contrastava mai. Gli era persino piaciuta Lucilla nonostante i modi da bambina viziata e quell’aria snob. Sua madre era una donna speciale. Lucilla aveva gli occhi grandi come solo le bambole. Una ragazza bellissima. L’aveva conosciuta una sera nel bar dove aveva l’abituale ritrovo notturno con gli amici di sempre. Quando usciva, Francesco non sembrava un operaio. Ben vestito, il sorriso pronto, il capello giusto. Le ragazze lo notavano subito, poi si accorgevano anche di quale orologio avesse al polso, la marca del cellulare e, soprattutto, del catorcio che aveva al posto dell’automobile. Lucilla non fece caso a nulla di questo. Era un amore inevitabile… La stessa sera che si conobbero fecero l’amore. Per entrambi la prima volta. Lo fecero a casa di lei mentre i suoi genitori erano fuori. Quando lo conobbero non gli riservarono la stessa tolleranza per il proprio stato sociale accordatagli dalla figlia. Sua madre era una donna altera dallo sguardo severo. Fece subito capire che aveva notato quello che invece era sfuggito a Lucilla. Francesco viveva con la madre in un bilocale. Dormiva nel divano letto del salotto. Sua madre non usciva mai e, del resto dove sarebbe potuta andare… La storia con Lucilla, nonostante il veto dei genitori di lei, continuava. Divenne ineluttabile fare l’amore in auto. Dopo molti tentativi poco felici, trovarono il luogo adatto allo scopo in una via laterale di un quartiere periferico. Parcheggiavano sul marciapiede in una zona d’ombra e lì iniziavano la loro danza amorosa. I pochi passanti casuali non si accorgevano di nulla, oppure fingevano di farlo che, all’atto pratico, era la stessa identica cosa. Qualche volta l’ombra di un passante poteva farli sobbalzare costringendoli a sospendere le loro effusioni, ma solitamente, appena tutto tornava tranquillo, riprendevano da dove avevano interrotto. L’unico vero spavento l’ebbero la volta che un gatto saltò sul cofano dell’auto per scaldarsi le zampe…
La notte che venne al mondo, il cielo aveva organizzato un raduno di pesanti nubi scure. Per qualche momento la luna si era destreggiata tra i cumuli tempestosi poi, rinunciataria, aveva preso la decisione di defilarsi. Il vento che spingeva da est era particolarmente gelido. Ringhiava e ululava negli spifferi delle finestre di quella casa abbandonata che sua madre aveva scambiato per un reparto di ostetricia. Nacque così, al freddo e in un luogo deprimente e ostile. Altri forse avrebbero pensato ad una predestinazione, cosa che però a lui sfuggiva completamente nel significato. Di suo padre sapeva poco, per non dire nulla. Se ne era andato prima ancora che lui nascesse. Un perdigiorno che vagava per la città conquistando femmine che, dopo averle sedotte con una tecnica sinuosamente sopraffina, le abbandonava al loro destino e alla loro prole. Un giorno l’avrebbe incrociato senza sapere chi fosse, in un’insolita zuffa tra i sacchi dell’immondizia di un lercio seminterrato. Sconfitto, il più vecchio trovò riparo nella fuga. Ne avvertì di nuovo l’odore qualche giorno più tardi, ma c’era qualcosa di diverso. Quell’odore era frammisto ad un altro ben più acre. Giaceva sul bordo della strada con le viscere di fuori. Un’auto, un motore o un bastone. Chissà… Annusò per qualche istante quel corpo senza vita poi con naturale indifferenza fece ritorno alla precaria sicurezza del suo sottoscala. Sua madre era bellissima, forte e tenace. Scivolava per le vie con il suo portamento leggero ed aristocratico. Ne serbava probabilmente il ricordo. Forse. E’ sempre difficile affermarlo in questi casi. Dei suoi tre fratelli aveva da tempo perduto ogni traccia. Era solo. Solo come tutti i suoi simili, come tutti i viventi, in fondo… Quando aveva quattro anni, ormai un gatto esperto della vita di strada, si era imbattuto in un tipo d’uomo che passava il suo tempo a sorseggiare alcool ed inveire contro il vento. I suoi sensi erano tranquillizzati dal suo aspetto trasandato e da quello sguardo perso chissà poi dove. Al loro primo incontro, l’uomo divise con lui una scatoletta di tonno. Tanto bastò per farselo amico. Una amicizia dai toni fortemente surreali e forse, proprio per questo, perfettamente normale…
Dato che quel famigerato giorno di tanti anni prima c’era stato così tanto, troppo vento, aveva dedotto che la causa della sua miseranda condizione fosse proprio da attribuirsi a quell’evento atmosferico. Perciò lo odiava. Lo odiava con tutte le sue forze. Del resto, è cosa risaputa, c’è sempre bisogno di un capro espiatorio. Tutto era andato per il verso sbagliato, ogni minimo dettaglio palesava la sua sconfitta. Sopraffatto dalla vergogna e dalla disperazione aveva scritto due righe di commiato e poi si era diretto verso la stazione ferroviaria. Le parole d’addio erano rivolte a chi lo aveva amato, ma soprattutto a chi lo aveva detestato, di modo che si capisse bene per colpa di chi fosse spinto a commettere quel gesto. Si sdraiò sulle rotaie e attese l’arrivo di un treno che non arrivò mai. Aveva già perso tutti i treni possibili della vita, perdere quello della morte fu davvero crudele. Si rivolse all’ingegnere del creato apostrofandolo in tutti i modi ma non servì a gran che. Comprese più tardi, al pari di tante altre cose, che il tipo in questione, ammesso esistesse realmente, non si scomodava per cose così piccole. Il vento, la vita di un uomo. Che importanza potevano avere in confronto all’amministrazione dell’intero universo… Il vento. Era stato l’impeto del vento a far crollare un traliccio dell’alta tensione. C’era voluta un’intera giornata per ristabilire il traffico ferroviario. Purtroppo il giorno successivo aveva perduto, notte facendo, il coraggio. Perché ci vuole una buona dose di follia ma anche molto coraggio per compiere un atto così risoluto. Allora, sia come sia, chiuse la questione acquistando un biglietto in direzione “Lontano”, salì in carrozza e giunse in quella città, ventisei e passa anni fa. Da allora per ogni giorno di vento, una bottiglia e la follia di gridare al vento tutta la sua rabbia. Viveva tra i barboni, mangiava quando poteva, ma il derivato alcolico nella tasca del logoro cappotto non mancava mai. Nei giorni di vento nessuno lo poteva avvicinare, neanche le donne di strada a cui era simpatico e che quando potevano lo aiutavano. Persino quel gatto randagio che da qualche tempo era diventato suo compagno d’avventura in quei giorni istintivamente si defilava. Venne infine la sera di un giorno di vento. Tutto il tempo a parlare vaneggiando iracondo contro un basso lampione a forma di fungo. Il suo amico gatto nascosto in un sottoscala, le amiche al lavoro in un locale dove servivano piccoli sogni dal costo proporzionato. Vedeva entrare gli avventori ognuno con la propria miseria, tutti con la stessa richiesta. Un attimo per perdersi, una notte per pentirsi…
Il secondo cartello era, per quanto possibile, ancora più malridotto di quello in fondo alla via. Eppure era il principale. Costruito a mo’ di freccia, stava inclinato verso il basso ad indicare l’entrata. I neon che funzionavano, due su sette, emettevano una luce fioca e discontinua. Un filo elettrico scendeva a penzoloni sulla scala. L’aria poco accattivante del segnale avrebbe dovuto metterlo in guardia, persino la direzione avrebbe dovuto quantomeno evocare il seme del dubbio. Non quella notte. Il fastidio allo stomaco, non ancora elaborato, inconsapevolmente gli aveva abbassato il livello di autodifesa solitamente piuttosto alto e tale da renderlo refrattario a certi stimoli. Che fosse un luogo piuttosto equivoco, in zona tutti lo sapevano e lui doveva averlo intuito vedendo l’insegna con i neon traballanti. Probabilmente, guardando l’insegna con i neon traballanti, in cuor suo l’aveva sperato. Discese i sette scalini ricoperti di mozziconi che conducevano all’entrata di quel seminterrato. Un tizio dall’aria stralunata era apparentemente alle prese con un basso lampione a forma di fungo, anticamente verniciato di smalto verde brillante, ma divenuto un ammasso di ruggine. Un gatto rannicchiato in un angolo buio del sottoscala gli lanciò un sinistro avvertimento. Non seppe interpretarlo o forse non lo volle fare ed entrò. L’aria era infestata dalle esalazioni dei tabagisti impenitenti, assolutamente in barba alle recenti norme antifumo. Come contagiato, lui che non fumava mai nei luoghi chiusi, andò subito con la mano destra a saggiare il taschino dove teneva le sigarette. Al bar chiese ed ottenne un whisky. Mentre fumava e sorseggiava la sua bibita alcolica cominciò a guardarsi intorno. Poche persone, una ventina o poco più. Una sottospecie di pianista maldestro maltrattava pietosamente i tasti neroavorio nel tentativo di emettere un’aria complice che invece riusciva perfettamente malinconica. I drappi rossi alle pareti, le luci basse, il fumo, la musica, le donne scosciate, tutto lasciava pensare ad un bordello d’altri tempi. Tempi a parte, così era. Mentre realizzava la situazione venne abbordato da una tipa. Le labbra sguaiate da troppo rossetto, la camminata incerta. Era senza il minimo dubbio completamente ubriaca. Dopo una breve conversazione riuscì abilmente a svincolarsi. Non fu altrettanto abile con la seconda che, per la verità, pur essendo forse un po’ attempata, era decisamente più affascinante. In fondo poi era lì per quello. Non si era mai voluto legare affettivamente a nessuna donna, quando sentiva l’urgenza preferiva comprarne la compagnia. Trovava che quel suo comportamento fosse molto più rispettoso dei sotterfugi e delle bugie che regolano i rapporti di coppia. Mentre parlava con la donna sentì salire l’eccitazione. Aveva un paio di gambe affusolate, le calze a rete e le scarpe di vernice rossa con i tacchi a spillo. Se la immaginò nuda con solo le scarpe ai piedi. Non vedeva l’ora di sdraiarsi con lei. Discussero brevemente del prezzo e delle modalità, poi uscirono. Come li vide, la luna gonfiò il petto mostrando tutto il suo lato più romantico, ma lui, come al solito e a ragion veduta in fondo, non gli dette alcun valore. Quasi indispettita, tornò al riparo degli scuri nuvolosi di cui era circondata. La donna e il tipo che discuteva col lampione si fecero un cenno d’intesa. Lei sorridendo, lui emettendo un fischiettio. Che volesse dire con quel suono, non è dato sapere ma, forse, tanto pazzo non era. Con la donna al suo fianco camminò con il passo ancora più leggero, pregustando le acrobazie sessuali che lo attendevano. Era quasi giunto a casa quando avvertì una fitta allo stomaco e dovette fermarsi un attimo appoggiandosi ad un auto parcheggiata sul marciapiede. Il dolore passò quasi subito. Istintivamente diede la colpa al bicchiere di whisky trangugiato.
I due nell’auto sobbalzarono. Due volte in una sera era decisamente troppo. Videro la coppia rincasare e sorrisero tra loro immaginando il tipo di compagnia che l’uomo aveva rimorchiato. In ogni caso la serata si era conclusa. Anzi, dato il movimento, forse valeva la pena cambiare appostamento per la volta successiva. Tanto si sa che le notti non sono tutte uguali. Questioni atmosferiche a parte, c’è la faccenda degli stati d’animo che cambiano. Talvolta fanno vedere fantasmi dove non ci sono, altre volte spingono l’incoscienza a sottovalutare gli eventi. Quella mattina Francesco si era svegliato di malumore. Aveva dormito male, il sonno disturbato da incubi di passaggio, strane e funeste visioni. Al risveglio però non gli diede la minima importanza. Non credeva nei presentimenti così come nelle superstizioni. In effetti non credeva in un sacco di cose. Non sopportava gli oroscopi, le religioni dogmatiche, i politicanti ed altro ancora. Del resto, quel malumore si era dissipato alla voce di lei per poi scomparire completamente al primo contatto delle sue labbra. Avevano fatto l’amore. Ma quella sera c’era stato troppo traffico. Già fare l’amore in auto è scomodo, se poi ci si deve preoccupare d’essere interrotti da curiosi o peggio, non è il massimo. Prima c’era stato lo sguardo indagatore di quell’uomo, poi un gatto era saltato sul cofano, infine di nuovo il tipo, questa volta in dolce compagnia, che si era appoggiato alla vettura. Decisero di ricomporsi e di tornarsene a casa. Ma quando i giovani decidono di smettere le loro effusioni, in realtà non cessano affatto. Mentre Francesco guidava, Lucilla gli accarezzava i capelli e anche qualcosa d’altro. D’improvviso da una scalinata sbucò un gatto che gli attraversò la strada. Francesco sterzò all’improvviso e l’auto perse il controllo. Piroettò su se stessa fermandosi al centro di un incrocio. Il camionista dell’autotreno che transitava in quell’istante non fece neppure tempo a rendersi conto di quanto avveniva. Calpestò la vecchia carretta, interrompendo per sempre quelle giovani effusioni…
Quella sera si era procurato uno spuntino veramente delizioso sottratto con felina astuzia a un’ingenua vecchietta che aveva messo la carne a scongelare sul davanzale della finestra. Stava tranquillamente mangiucchiando la sua refurtiva quando avvertì i passi di quell’uomo. Passi leggeri. Fu attratto dal suo odore perché lo percepiva sbagliato. Tutto, in fondo, era sbagliato. L’odore, l’uomo, la notte. Ma queste sono cose che un gatto non può capire. Istintivamente gli lanciò miagolando un avvertimento che l’uomo lasciò cadere nel nulla. Terminò il suo pasto e saltò sul muricciolo. C’era qualcosa di strano nell’aria ma era indefinito, confuso a suoi sensi. Qualcosa lo attirava oltre la strada, verso una zona di quell’isolato per lui inesplorata. Ridiscese a balzelli i gradini mentre una coppia usciva dal locale. Il tizio che odorava di sbagliato in compagnia di una femmina puzzolente della sua specie. Odiava quel tipo di animale. Infestava l’aria impedendogli di percepire altro. Non poteva sapere che quell’odore intenso e dolciastro gli aveva temporaneamente salvato la vita. Nel sottoscala si strofinò il muso con le zampe quasi ad allontanare l’odore della donna dalle sue vibrisse. Poco a poco l’olfatto gli ritornò libero e, con l’olfatto, l’inquietudine di prima. Una gatta. Una gatta in amore lo stava chiamando a sé. Salì di corsa i gradini e attraversò la strada senza porre la minima attenzione al fatto che stava passando un auto. Il conducente scartò di lato e lui si ritrovò sul marciapiede opposto senza un graffio. I gatti hanno sette vite. Non curante dello schianto che avveniva alle sue spalle, perso nelle bramosie d’amore continuò la sua rincorsa. Un giardino. L’odore più intenso. Anche un altro odore. Attento, gatto, quante vite hai già consumato? Perso dal richiamo amoroso s’insinuò tra le inferriate del cancello ed entrò. Sul terrazzo una gatta lo stava aspettando. Femme fatale. Un secondo dopo aver avvistato la sua bella, due potenti mascelle lo afferrarono poco sopra le scapole. Risoluto nel vendere cara la pelle, si rivoltò come una furia piantando le unghie sul muso del cane che, a malincuore dovette lasciare la presa. Ora i pensieri amorosi non contavano più, l’unico istinto rimasto riguardava la fuga. Corse via, verso il suo sottoscala. La ferita però non gli consentì di allontanarsi di tanto. A fatica raggiunse l’altro lato della strada per andare a morire tra le gambe dell’unico uomo che aveva considerato amico…
Il vento calò d’improvviso. L’uomo smise di litigare con il vecchio lampione a forma di fungo e si chinò. Il rantolo dello sventurato felino richiamava un altro rantolo ben più grande e nascosto. Si rialzò allontanandosi quasi fosse indifferenza. Ma non era indifferenza, era destino. Il cavalcavia distava tre chilometri, da percorrere lentamente con uno strano sorriso disegnato sulle labbra. Vide la sua amica prostituta uscire da una casa con la faccia sconvolta di chi ha appena visto un fantasma. Ma non ci fece caso, non avrebbe fatto più caso a nulla. Le rotaie lo stavano aspettando. Tutti i pensieri di una vita lo affrontarono in quella traversata. Fra i tanti anche piccole briciole di cose buone, qualche sorriso, qualche parola non dimenticata. Mentre si avvicinava alla meta, piano piano anche la sua mente si riavvicinò a lui. Sorrise. Come quando si incontra un vecchio amico che non si vede da tanto, troppo tempo. Quella mente confusa da tanto, troppo vento… Accarezzò le rotaie prima di sdraiarvisi sopra. Niente vento. La terra cominciò a vibrare. Dapprima solo un leggero tremolio via via crescente che si concluse in un boato sordo. Poi il silenzio…
Nella falsa intimità della camera da letto, l’uomo dal passo leggero, nudo con i soli calzini ai piedi, ondeggiò sinuoso sopra la donna, nuda con ai piedi le scarpe di vernice rossa. In pochi attimi raggiunse il piacere, dopo di che cadde pesantemente su di lei… Inizialmente fu il peso sul torace, poi si accorse che qualcosa non funzionava. C’era un che di stonato in quel silenzio, in quel non ansimare tipico di un uomo dopo il fatto. Due dita sulla carotide destra e la realtà le si mostrò con tutta la sua spietata evidenza. Il panico, la rabbia e la paura gli rovistarono nello stomaco.
Prese il telefono e fece per chiamare aiuto ma poi si trattenne. Non voleva guai. Non più di quelli che la sua vita già gli presentava ogni giorno ed ogni notte. Cercò nella semioscurità i vestiti per poi indossarli rapidamente. Aprendo appena la porta scrutò la strada. Non passava nessuno. Fece un respiro profondo e se ne andò…

martedì 13 ottobre 2009

istruttore (in ortodonzia) per caso



Venerdì, sabato e domenica sono stato a Rovello Porro nell'interland milanese al corso di biopregressiva organizzato dalla SIOB. E' già il quarto fine settimana che dedico gratuitamente il mio tempo nel dare una mano ai miei grandi maestri (Dr Franco Bruno, Dr Daniele Vanni, Dr Luca Dal Bosco) vestendo i panni dell'istruttore di ortodonzia in erba. Per la verità, sono andato per istruire e sono tornato più edotto di prima. In primo luogo perchè ascoltare chi conosce la materia in maniera così approfondita riesce a farti crescere di un quid ogni volta. In secondo luogo perchè l'entusiasmo di chi è lì per imparare ti coinvolge e fa emergere dentro di te la voglia di migliorarti. Per cui mi sento di ringraziare ancora una volta i miei maestri e di ringraziare doppiamente i (più loro che) miei discepoli. Grazie.

lunedì 12 ottobre 2009

i mattoni rossi di kindu


pubblico sul mio blog questa bellissima riflessione di Daniele...


I MATTONI ROSSI DI KINDU

Sono rinato a Kindu.
Nel momento più buio della mia esistenza, quando il mondo che avevo costruito si stava disgregando ed annaspavo travolto dai marosi, l’Eterno attraverso un suo messaggero mi ha gettato un salvagente e mi ha invitato in un luogo del quale non sapevo nulla e non mi ero mai interessato.
Qui ho conosciuto la vera sofferenza, il vero dolore, ma anche il vero amore.
Ho camminato accanto ad Angeli capaci di distribuire carezze e sorrisi dove regna solo la disperazione.
Ho conosciuto una donna dal cuore troppo grande per il suo esile fisico che a stento riesce a reggerne il peso, che ogni sera è appena capace di parlare, sfinita dalla sua incontenibile generosità, ma che al mattino rinasce e sorride.
Ho conosciuto la vera amicizia, altruista e fraterna, di un uomo libero e coerente.
Ho conosciuto la vera religiosità che mi ha in poche frazioni di secondo fatto congiungere con l’Eterno.
In Africa tutto è vero, non c’è spazio per l’ipocrisia.
I colori sono sempre accesi, come gli animi degli uomini, non c’è spazio per le sfumature.
Le parole sono gridate, non c’è spazio per il sussurro.
L’essenziale regna, l’inutile non esiste.
La terra di Kindu ha dei colori magici, indescrivibili che vanno dal giallo ocra al rosso.
I sapori sono pochi ed essenziali, sempre gli stessi, decisi e mai sgradevoli.
Gli odori sono forti e reali, non ci sono deodoranti bugiardi capaci di coprirli.
Gli occhi...
…Quelli dei bambini sono i più belli che esistano.
I sorrisi sono infinitamente veri, in Africa non si sorride senza un motivo. Anche le lacrime purtroppo sono infinitamente vere, perché la cattiveria e il dolore…
…sono!
Il viaggio interiore è cominciato con la visita all’ospedale diocesano, luogo di miseria, sofferenza, ma soprattutto di speranza per i pazienti e di voglia di riscatto per i medici. Don’t forget. Non dimenticare, mi è stato detto e non dimenticherò.
Non dimenticherò mai la faccia dei bambini malati della più brutta malattia che esista, la fame, quella vera. Non dimenticherò neanche gli occhi materni e sofferenti, nascosti dietro il rassicurante sorriso di Suor Enriette, quando li prendeva in braccio.
Non dimenticherò mai il dolore scolpito nella sua faccia, nascosto dietro il sorriso materno, quando abbracciava i bambini soldato e dava a tutti una speranza. Una speranza vera!
Non dimenticherò mai la giornata di domenica, cominciata con la messa più vera alla quale abbia assisto in vita mia e continuata in totale condivisione con la popolazione dei villaggi dell’entroterra. Un bagno di folla e di amore. Amore vero!
Non dimenticherò mai il pianto fra le braccia del mio amico, che pensando che piangessi per sconforto mi diceva “coraggio ce la farai”. Io piangevo per commozione perché grazie a lui avevo capito. Non avevo mai pianto fra le braccia di qualcuno, neanche tra quelle di mio padre.
Anche i mattoni di Kindu sono veri, come devono essere i mattoni. Rossi, con tutte le sfumature dell’argilla semplicemente mischiata con l’acqua e cotta.
Dal mio viaggio me ne sono portato uno. L’ho posto nelle fondamenta del mio Tempio interiore. Pensavo di essere già avanti nel compimento dell’Opera. Non avevo scavato neanche le fondamenta!
Daniele Vanni
Bressanone 11 agosto 2009

giovedì 8 ottobre 2009

mercoledì 7 ottobre 2009

camy al vento

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martedì 6 ottobre 2009

redentro



So che siete pigri e che alle cinque e trenta del mattino non vi passerebbe mai per l’anticamera del cervello di lasciare il vostro letto per incontrare il vento. Ma se lo faceste, potreste imbattervi per caso in un volto. Appartiene a un uomo che in quei luoghi va in silenzio, vi s’accovaccia, stende le braccia e si fa percuotere la pelle dallo stesso vento che voi, dormiglioni, non potrete mai sfiorare. Il suo nome è Red.
A proposito, come sta la bolla d’aria? Tutti muri a piombo, immagino…
Io e Red ci conosciamo da una vita. Prima ancora di quel giorno in cui mi ha strappato dalla strada pagando il mio riscatto. Già... Poi mi ha offerto un posto dove stare. Una famiglia. Le sue mani... Fino a quando non conoscerete le sue mani sarà molto difficile per voi addentrarvi nel suo universo. Mani di sabbia ruvida. Mani di frasi spezzate. Mani che la rugiada riconosce e aspetta per rendergli meno amaro il respirare.
A Red devo tutto. È più di vent’anni che stiamo insieme e non c'è stato un solo giorno senza musica. Si, perché io e Red scriviamo canzoni. A noi due piacciono molto, al resto del mondo temo di no, almeno a giudicare dalla richiesta dei bis… Ciononostante continuiamo a scriverle.
Perché lo chiamano Red? Ci crediate o meno, non lo so e non gliel’ho mai chiesto. Io e lui parliamo poco, praticamente nulla. Quando l'ho conosciuto aveva già quel soprannome. Credo che derivi dalla sua passione per il colore rosso. Io stessa sono una rossa tutta curve… Sì, Red ama tutto ciò che è rosso. Tutto tranne il fuoco… Il fuoco lo ha reso quello che è, forgiandogli l’anima. Ma, soprattutto, grazie al fuoco, Red è un uomo solo. Non l’ha scelta lui la solitudine, anche se in realtà, indirettamente, forse lo ha fatto. La vita a volte ti porta a commettere determinate azioni senza darti il tempo per rifletterci sopra, non quanto si dovrebbe. Magari, poi, la scelta resta inalterata, è la consapevolezza che cambia.
Red vive dietro l'angolo, in disparte, non vuole che la gente s’accorga di lui. In questo modo nessuno può sapere cosa si perde, quale universo oceano la sua mente sappia cullare. Quanti voli ci siamo fatti noi due! Purtroppo stiamo invecchiando. Lui ha quarantaquattro anni. Detti così, sembrano noccioline ma, ammonticchiati sulla schiena uno sopra l'altro pesano.
Red vive di pensieri nuvola nascosti dietro i suoi occhi neri. Occhi distratti e sciolti. Occhi che sfuggono l’incontro. Occhi tristi e dolci.
Viola mi ha confidato che... Ok, d'accordo lo diceva a zia Lisetta... D'altronde io ero lì, dietro l'armadio, non ho potuto evitare di ascoltare...
Cosa stavo dicendo? Sì, ecco... Quando Viola lo ha conosciuto è rimasta fulminata da quel suo sguardo, nonostante l'aspetto ben poco attraente del suo viso.
Come? Troppe cose in sospeso? Ok, facciamo un po' di ordine.
Zia Lisetta è la padrona di casa. Un’amabile signorina di cui si deve tacere l'età. Detto tra noi sono ottantasette. Detto tra noi non è neanche signorina, ma questa è un'altra storia. Detto tra noi è una persona speciale.
Viola è la figlia di Saverio il sarto. Ha trentadue anni ed è tornata solo quattro mesi fa da Calcutta. E’ tornata perché ha capito che non le era possibile cancellare tutto il vento che le girava vorticosamente dentro il cuore. Non fuggendo. Non vessandosi nel corpo e nella mente.
Poi, due settimane fa, è entrata in libreria ed ha incontrato Red.
Red sa benissimo l'effetto che fa il suo volto deturpato sulla gente. Dopo un po' ci si abitua a tutto… Anche a suscitare ribrezzo, pena, curiosità. Eppure Viola è rimasta affascinata dai suoi occhi così neri e intensi. Per un attimo ha pensato di vacillare. Ha vacillato…
Posso esserti utile?
Io, sì... Cercavo qualcosa di Shakespeare…
Posso suggerirti i ”Sonetti d’amore”?
No, no... Voglio dire, scusa, ma intendevo leggere l’Enrico IV…
Bene, guarda è proprio lì, sopra quello scaffale.
Tornata a casa Viola non ha potuto soffocare quel suo turbamento. Troppe domande, troppi suoni instabili. Un piccolo universo che si agitava dentro. Finalmente il dubbio. Una conquista assoluta…
Anche l’altro protagonista dell’incontro è rimasto visibilmente scombussolato. Appena rientrato mi ha preso tra le mani e si è confidato.
E’ possibile? E’ solo il frutto della mia fantasia o quello che sento, la vibrazione, lo scambio di sguardo, è, era…
Che risposte potevo dargli mai?
Ci siamo messi a suonare. Corde sulle mani tese. Corde che vibrano al limite dell’onda sollevata dai battiti improvvisi. Corde fragili e mani dure.
In pochi minuti abbiamo composto una canzone. Ritengo fosse dedicata all'amore impossibile, quello che sa di ciottoli di fiume e rami spogli. Poi Red si è gettato sul divano piangendo. Ci sono abituata. È un pianto silenzioso. Lacrime e cuore gonfio.
È difficile per lui.
No, non è stato sempre così, da giovane era un ragazzo bellissimo. Quando l'ho conosciuto, aveva si e no quattordici anni. Io a quel tempo ero la compagna di Luciano, un'artista di strada. Lucio era un essere piccolo e spregevole ma anche capace di sorprendenti moti di generosità. E' lui che ha insegnato a Red la musica. E’ lui il testimone delle mani sulle corde.
Tra me e Red è stato amore a prima vista. Ci siamo amati alla follia. Ma dovete capire, dovete mettervelo bene in testa, che gli uomini non sono tutti uguali. L’apparenza inganna e tradisce. L’uomo che vive dell’armonia tra le parole e la musica, non scivola tra le pieghe come fosse acqua. E’ questo che lo rende un essere speciale. Per questo amo Red. Sì, lo amo, nonostante il suo aspetto e il suo dolore.
Aveva diciannove anni quando accadde quell'episodio che gli avrebbe marchiato a fuoco l'esistenza.
La città sullo sfondo aveva un altro nome, di quelli che si dimenticano rapidamente come i volti dei passanti incrociati in tutta fretta per le strade di una metropoli. Sono le storie che rimangono, quelle che danzano sul filo delle emozioni. Red aveva diciannove anni e uno stuolo di ragazzine che gli girava intorno come api sul miele.
Quel giorno luglio gravava con la sua afa sulle strade. Ma non vi racconterò altro di quel giorno. E' troppo il dolore, eccessiva l'emotività, scemato il vento.
Che significa se sono una chitarra? Che credete, ho molta più anima io che tanti esseri umani. Sì, ho molta anima, quella di Red...
Sia come sia, qualche mese dopo il suo terribile incidente venne a riscattarmi. Andammo a vivere da una sua zia paterna, che abitava poco distante. Sentiva il bisogno di cambiare città. Le frasi di circostanza di amici e conoscenti erano difficili da sopportare come le lacrime di sua madre e delle sue sorelle. Faccenda strana, poi, quella delle api. Chissà dove si erano rintanate tutte quante… La zia Lisetta capì la faccenda al volo e gli offrì una via di fuga.
Vieni qua da me. C'è un posto in libreria che fa proprio al caso tuo.
Così Red iniziò a lavorare nella libreria della zia. Non so dirvi come, ma trovò la forza per continuare. Un giorno alla volta, un respiro per volta. Ha studiato e si è laureato. Il suo sogno era quello di insegnare. Si è accontentato di vendere libri… Del resto, è faccenda conosciuta, il destino chiede conti salati ai puri di cuore.
Sentite? Passi sulle scale. E’ lui che sta tornando. Vi devo lasciare. Sapete, quando torna a casa è sempre giù di corda. E io sono il suo antidepressivo.
A presto!
Le parole si nascondono tra le corde che vibrano e i pensieri si calmano, si annullano. Giunge finalmente l’attimo in cui tutto si nasconde in una sorta di oblio dove la realtà non appare così tanto amara. Grazie alle corde, che chiamano la musica. Cadere è insito nel volo. Bisogna avere il coraggio e la forza di rialzarsi, di rimettersi le ali per riprovarci ancora. Certo, non è facile, non è fingere. E’ respirare.
Salve! Siete ancora lì? Bene, pochi ma buoni… Red dorme, ora posso continuare. Non credo avrebbe piacere di sapere che parlo di lui… Basterà non dirgli nulla, conto su di voi…
Sono stati giorni strani, questi ultimi. Come vi dicevo, sette giorni fa Viola è venuta a far visita alla zia Lisetta. La zia è molto amica di suo padre. Pare che sia stata ancora più amica del nonno se capite cosa voglio dire… Oh, che credete, il mondo è questo! Passi per l’indolenza mattutina, ma evitiamo i falsi moralismi e il bigottismo acefalo. Ve lo chiedo per favore. A proposito, tutto bene nella galleria del vento?
Come? Viola? Ah, sì, dunque… Ha suonato il campanello e Lisetta l’ha fatta salire.
Vieni piccola cara, entra, fatti vedere! Ma sei proprio carina vestita così! Mi ricordi l’attrice del film “Colazione da Tiffany”. Come si chiamava già? Ah, sì, Haudrey Hepburn. Dimmi, ce l'hai un gatto tu?
Un gatto? No, io non…
Hei, ma te lo devi procurare! È necessario, capisci?
No veramente no… A cosa mi servirebbe un gatto?
Che discorsi bella mia… Tu fallo e basta, non si deve mica capire tutto nella vita. In fondo, non è più semplice così?
Ok, questa è la zia Lisetta. ma fate attenzione, non è matta e neppure svampita come sembra di primo acchito. La realtà è che lei ha capito la vita e sa come affrontarla. Tutto qua. Già, e vi pare poco?
Ma non stare lì impalata, non siamo al museo delle cere. Entra, accomodati. Gradisci una tazza di the al ribes?
Dimenticavo, la zia va matta per gli esperimenti di erboristeria. Per quel che ne so io, i suoi intrugli sono anche gustosi.
Al ribes? Proviamo…
Ecco, così si fa, non come quel musone che storce il naso ogni qualvolta gli propongo di assaggiare una delle mie leccornie.
Il musone sarebbe Red?
Oh, no, anzi! Lui si diverte a prendermi in giro per i miei tentativi di bevande fatte in casa, poi però le gradisce eccome. No, no! Il musone è Temistocle che, in teoria sarebbe il mio assaggiatore ufficiale, in pratica se ne guarda bene dal farlo.
Temistocle?
Come, non vi ho ancora presentati? Ora te lo faccio conoscere immediatamente. Temì, Temììì, vieni ciccino da mammina tua!
Temistocle è l’altro abitante della casa. Trattasi di un grosso gatto soriano dal pelo rosso che passa le sue giornate a dormire e stiracchiarsi. Unica attività fisica che sua maestà si concede è il cambio ciclico del cuscino. Un fresco giaciglio è quello che serve, specialmente nei mesi caldi. Non c’è divano, poltrona o sediola che non riconosca il suo folto pelame.
Temì, ti presento Viola. Sei pregato di comportarti educatamente, non come il tuo solito. Sai, Viola, il mio Temistocle è del genere gattopigrosnob.
Capisco…
Ovvio, quel capisco di chi non ha capito niente. A sua discolpa c’è da dire che zia Lisetta confonderebbe le idee anche a chi le ha belle chiare, figuriamoci per chi, in qualche modo, si trova in un momento di confusione personale. Perché Viola, a dispetto di quello che potete aver pensato, è una donna molto intelligente, forse la più intelligente che la vita mi ha concesso d’incontrare.
E qui mi sovviene naturale chiedervi a che punto siete con la tinteggiatura delle prese d’aria.
Ma torniamo alla zia Lisetta che, furbetta e maliziosa si rivolse a Viola con una domanda.
Immagino che tu non sia venuta a trovare questa vecchia pazza per parlare di tisane o di felini, giusto?
Sì, in effetti…
Allora, a cosa debbo l’onore?
Ecco, come le ho già anticipato per telefono, io… Non vorrei che… Sì, davvero, mi dispiacerebbe molto essere fraintesa.
Coraggio, cara. Anche se non ho ben capito dove vuoi andare a parare col tuo giro di parole, qui nessuno ha la ben che minima intenzione di equivocare.
Insomma, non vorrei che lei pensasse che la mia è solo curiosità. Certo, in parte lo è, ma io…
Vuoi conoscere la storia di Red, giusto?
Sì…
E così la zia iniziò la sua condita narrazione. Alla fine la ragazza parve fin troppo turbata.
Nonostante cercasse di dissimulare, non poteva certo farla alla vecchia zia.
Qualcosa non va, cara?
No, no, tutto a posto. Ora devo proprio andare.
Bene, torna pure a trovarmi se ti fa piacere, sai noi vecchiette rimbambite adoriamo la compagnia di voi giovani, è come tornare a respirare l’aria del mare dopo tanta lontananza. Tu mi capisci, no?
Sì, la capisco. Tornerò senz’altro. Sa? Tutte le cose che dice mio padre su di lei, comincio a pensare che siano vere.
Oh, non credere agli uomini, sono tutti degli spudorati mentitori. Comunque salutamelo, lui lo sa quanto bene gli voglio.
Non mancherò. A presto.
Sì, a presto.
Poi il silenzio si riprese la sua fetta di colore.
Sai, Temì? Credo che oggi diverrà un giorno da ricordare. E non guardarmi male stupido felino. Sarò pure una cariatide avvizzita ma certe cose io le avverto e posso affermare tranquillamente senza timore d’essere smentita che sta cambiando il vento. Non ci credi? Va sul terrazzino ad annusare l’aria se non ti fidi.
Temistocle, quasi avesse afferrato il senso esatto di quel soliloquio, sporse il suo largo muso a mezza luna dalla porta finestra. Non parve gran che convinto. Si strisciò i baffi con la zampa per fare poi ritorno sul puff a spicchi ricamato rosso e oro.

venerdì 2 ottobre 2009

acqua negli occhi, sangue sulle mani

lo sguardo
si nasconde
arreso
in troppi voli
dall'idea sublime
ancora
le voci
d'estate
rossa e oro
sull'argilla dolce
le mani
in un sorriso
sottile
forse un taglio
nell'attimo del nulla

giovedì 1 ottobre 2009

sorrisovento




D’improvviso,
il tuo scroscio
steso a terra,
mi racconta.
Lasciati
tutto è fuori
e dentro di te.
Lasciati
e il vento
conosci.

mercoledì 30 settembre 2009

settembre ancora




Ieri per un caso davvero fortuito (dovevo scendere e poi salire invece resto lì, fermo come un mammalucco che si perde a non pensare), m’imbatto in Luciano: solita faccia da culo, pochi capelli in gran parte canuti e quel sorriso bastardo che un poco ti sfotte e un po’ ti seduce.
Volti distorti e distanti percorrono arresi sentieri.
Mondi nascosti sottovento s’adombrano appena di una certa malinconia, non più di quella che costantemente mi porto appresso.
Ritorno a un settembre già stato, nell’aria un odore sottile di mele e di acini d’uva. Giorni contati, d’accordo, ma dal sapore migliore.
Ricordo l’incontro che feci con questa faccia da gatto con il raffreddore che ancora purtroppo ritrovo quando trovo il coraggio ed affronto il riflesso.
Ma se devo spiegare il motivo per cui mi sorprendo a indagare tra quelle fessure smagliate, proprio ora che m’appresto ad attaccare col dito indice della mano destra, la sinistra impegnata a torturarmi l’occipite, un ossidato pulsantino d’ottone, non saprei dare risposta.
- Sì?
- Buongiorno signora, sono Lecconi…
- Vieni, vieni. Ti stavamo aspettando. Quarto piano.
Entro nell’androne di un vecchio palazzo marchigiano, dove marchigiano non sottintende affatto uno stile architettonico, bensì una specifica topografica.
Alle mie spalle il vecchio portone si richiude con un miagolio da cinegiallo; un istante a decidere tra scale e ascensore, quindi mi avvio, uno scalino alla volta che un’immagine all’altra accavalla.
E l’odore di chiuso.
E il silenzio che copre le risa.
Sfuggi se vuoi.
Nasconditi pure, per quanto, non pare che nulla sia molto efficace.
Così t’allontani.
Ad un altro settembre, ad un altro coraggio, un sogno o un colore che hai avuto per mano e ti è parso sottile, fin troppo sottile per tenerlo con te.
Ed ora lo cerchi.
Ma dove?
Ed anche se fosse, non giunge un po’ tardi al portone?
Sul secondo pianerottolo un’anziana signora se ne va di ramazza, una vecchia vestita da vecchia che respira da vecchia.
Mi getta un’occhiata ben poco benevola.
Il buffo è che anche quindici anni fa, quando venni a trovare il prof. l’ultima volta, era li che spiegava le forze strofinando nel marmo.
Forse un po’ meno vecchia e, se ben mi rammento, pure meno gentile.
Anche allora avevo necessità di un incontro, di un silenzio, di un appiglio cui aggrappare i pensieri.
Era andata così: consumati tre giorni a fronteggiare il vento, il corpo una statua dal volto arcigno, senza che nulla avvenisse.
Il sole si era comportato da sole di fine estate, i passanti si erano tutti identificati nella media gaussiana del passante tipo: corpi in bombetta su uno sfondo di nuvole.
Ma qualcosa cambiò.
Ad un preciso istante, di quelli che sorgono al seguito di una scomoda idea, mi liberai di quel sentimento avverso che mi aveva sequestrato al mondo.
Un attimo solo, trattenni il respiro, un respiro profondissimo, maledettamente conscio della futura apnea e mi diressi velocemente, senza sapere neanche io il perché, a casa del prof.
Ricordo le sue parole, allegre e severe, mi permisero di intraprendere quel viaggio un po’ troppo pindarico che infine ha portato a quello che sono:
“devi accettare la sconfortante idea che la vita è quella che vedi, quella che vivi e non quella che tanto fervidamente immagini.
Quando raggiungerai questa consapevolezza, inevitabilmente qualcosa nella tua mente accadrà.
Solo allora per ogni avvenimento che sarà tetro e spento potrai attingere a quel meraviglioso crogiolo di fantasia accesa e sublime che è in dotazione ad ogni uomo.”
Tento di proseguire l’ascesa e forse lo faccio, ma fastidioso continua, ostinato rovella il pensiero.
D’accordo, Luciano, m’arrendo, dimmi che vuoi.
Che mi vuoi raccontare?
M’insegui, circondi i miei attimi e subito dopo mi sfuggi.
In vent’anni ti avrò visto tre volte; in ogni occasione mi hai rotto le palle con racconti noiosi, narcotizzanti, sulle tue donne, sui tuoi grovigli, pieno di te, dei tuoi vizi e di quei tic maledetti.
- Settembre.
- Come dici?
- Settembre.
Come sempre settembre transita indifferente al nostro sguardo che sia o non sia consapevole della nostra caducità; è la qualità dei suoi giorni che pregna i pensieri.
Ma quale ruolo tu abbia, Luciano, in questo disagio, ne sono all’oscuro.
Si affaccia alla mente più spesso di quanto dovrebbe, e non so se dovrebbe, con quel suo insinuarsi tra i salti e le risa.
Ho una strana sensazione, come se i miei ricordi siano solo presagi di un tempo a venire, che quei giorni di quando le corse sollevavano le gambe fino al cielo debbano ancora arrivare.
La mamma di Stefano aveva occhi azzurri piccoli, piccoli, come fessure.
E un animo semplice.
Mani callose raggrinzite dal duro lavoro nei campi, una schiena incurvata e così pochi denti che quando rideva pareva una strega.
Quando la conobbi doveva avere all’incirca trentacinque anni ma ne dimostrava settanta.
La mamma di Stefano aveva occhi e cuore solo per lui, lui che era il più piccolo, così intelligente, con quel sorriso da simpatica canaglia.
Luciano, di questo strano e ossessivo amore materno ha sempre sofferto, covando una forma di gelosia nei confronti del suo fratellino fin troppo sfilacciata e rancorosa.
Chissà se è questo il motivo per cui è sempre stato un gran figlio di puttana mentre suo fratello era un tipo buono, dolce e allegro.
La mamma di Stefano morì una mattina piovosa di febbraio e molte cose, ineluttabilmente, non furono più le stesse.
Io non so se fu questa la ferita che condusse Stefano in quella strada senza uscita, con sosta per decesso anticipato.
Non so se una ragione in queste cose vada cercata o, più semplicemente, la vita sia da accettare così com’è, senza tante spiegazioni.
Fu tre giorni dopo la morte di Stefano che andai a trovare il prof. Miratelli.
Ora credo di sapere perché Luciano mi saltella nella mente: è il mio rimorso.
Io del resto sono il suo…
Nessuno dei due si è mai potuto perdonare di non aver fatto l’impossibile, a volte manco l’indispensabile od il minimo.
Troppo presi dalla vita: il lavoro, lo studio, le compagnie piacevoli.
Stefano non poté contare sull’aiuto di suo fratello né su quello del suo migliore amico, quel bambino con la faccia da gatto col raffreddore che aveva conosciuto una mattina di settembre al di là di una siepe di biancospino; come visitando uno specchio.
Così settembre mi richiama e scivola al mio fianco.
Stende quei suoi giorni, tutti in fila, uno dietro l’altro e li racconta.
E nel racconto li fa belli.
Ma io li osservo come sono veramente e, sinceramente, non so dire quanti ne tornerei ad affrontare senza timore, ora che non sono più in possesso di quell’illogica follia.
Ho compreso il motivo per il quale Luciano è qui con me mentre senza fretta salgo queste scale e affronto quel rimorso; presumo che anche lui affronti il suo ogniqualvolta i nostri giorni stringono alleanza per farsi compagnia.
Lo so che quando mi guardi dritto dentro gli occhi mi rimproveri le assenze, le troppe mie assenze.
Io quando invece entro dentro gli occhi tuoi lo faccio solo per capire come fai ad ostentare sul tuo viso quell’insolito sorriso.
Ora che conosco la ragione per cui mi rovisti i pensieri, devo chiederti un piccolo favore: allontanati, se puoi, dalla mia mente, Luciano.
Coraggio, levati dai coglioni!
La porta socchiude ed incrocio lo sguardo di una donna che deve essere stata molto bella da giovane: occhi grandi luminosi e un bel sorriso.
L’età e la vita si sono industriate a spegnerlo ma pare che, per ora, non abbiano potuto molto.
- Luigi ti aspetta nel soggiorno…
Entro adagio, adagio, quasi scivolo, forse un po’ troppo timoroso.
Poi lo vedo.
Una coperta a scacchi dai colori incongruenti (ma cosa è congruo ormai, cosa mai lo è stato?) per non mostrare gli arti lesi.
Come di pietra, insisto sulla soglia, ma è solo un attimo.
La voce è quella che t’immagini, un po’ fiacca, le parole strascicate, ma lo sguardo è proprio quello che speravi.
E tutto diventa più facile.
- Allora, cot fè ma le? Siediti dai e racconta.
Racconta…
La vita stessa è un serbatoio di racconti, un alchimia di sensazioni ed emozioni avvicinabile solo a chi sa coglierle.
Ci si deve saper stupire e poi commuovere; saper scendere e salire le bassezze e le alte vette delle sue virtù.
Passando per un parco dove nel tempo, il tempo stesso più volte mi ha dato appuntamento, raccolgo in pochi istanti tutti quei momenti che hanno deciso la mia storia.
Colgo in essere un disagio misterioso, che misteri e nascondigli poi non ha, solo attimi.
Attimi ora struggenti, ora patetici, ora esplosivamente allegri.
Ma mai indifferenti, mai inutili.
Un bel respiro, prendo coraggio e parto.
- Le ho portato questo…
Appoggio su un tavolinetto tondo con intarsiata una scacchiera il motivo del mio passaggio: una busta gialla che lui osserva poi, senza una minima occhiata interrogativa, apre, quasi scartandola come fosse un cioccolatino.
Lo sapeva, lo ha sempre saputo, lui prima di me.
Aspettava soltanto arrivasse il momento, questione di tempo.
Senza che nessuno dei due nulla possa proferire, che bisogno in fondo non c’è, ecco che s’incanta in una profonda lettura, quasi un sonno oppure, chissà, un viaggio.
Cinque minuti, venti, un ora o più?
Non cado nella tentazione di spiarlo nella mimica, nel suo usuale crucciare il sopracciglio, nel torturarsi il lobo o nel sorridere tra se.
Vorrei ma non vorrei sapere cosa sta pensando.
Ad un certo punto, in un certo istante riarso ci guardiamo, entrambi con le labbra coricate in un sorriso.
Sai che ho scritto anch’io delle cosucce?
Non sono state molto apprezzate, per la verità m’importava ben poco. Sostenevano che quanto scrivevo non aveva nessun tipo di trama. A sentire loro ignoravo i fondamentali, buffo no? Una scultura ha una trama? Un dipinto segue sempre tracciati già percorsi? Guarda la vita, la mia per esempio: seduto senza possibilità di muovere il corpo, e cosa pensi? Che sono finito? Che non ho più trama? Questo tuo racconto non ha trama, eppure emoziona, ha ritmo. E’ violento e delicato, dolce ed amaro, sereno e rabbuiato, come l’animo umano, come le sue emozioni. Senza tempo, senza spazio, senza dimensioni che siano d’appiglio.
Entra dentro la stanza, silenziosa, quasi furtiva, con quei suoi occhi sorridenti.
Un vassoietto con un bicchiere d’acqua e una compressa rosa.
Non dice nulla, neppure lui, nemmeno io.
Mi alzo, stringo quella mano debole ed anemica.
Lui si china e con l’altra mano mi afferra il polso.
- Se vuoi, quando vuoi, vieni a trovarmi e portami i tuoi lavori.
Sarò un rottame ma la mia mente funziona ancora e si ostina nel continuare ad essere. Resisto, stranamente disponibile ad assaggiare le emozioni.
Così settembre mi getta in faccia la sua aria fresca della sera.
Mentre cammino penso a questo giorno e, pur senza esserne sicuro, mi pare di comprendere il suo volto.
Perciò m’arrendo a questo vento che m’abbraccia e mi trascina fino al fondo della spiaggia dove il mare riconosce le mie scarpe.
Accetto l’inquietudine e dissolvo.
Di quel settembre un altro giorno.

domenica 27 settembre 2009

Ciao Coglione!



La tizia del piano di sopra urla come un’aquila a quel teppista di suo figlio. Capite bene che non è una novità, quella non fa altro che urlare, dire che non sarebbe neanche brutta, ma, Cristo, che razza di rompicoglioni! Il figlio è un idiota esemplare, di quelli che persino ai nostri giorni è arduo incontrare. Idiota, maleducato e teppista.
No, la vera notizia si evince dalla classifica provvisoria del campionato di calcio: c’è l’Inter in testa. Lo ammetto, non sembra neanche verosimile. Ma, tranquilli, mancano ancora quattro giornate alla fine del campionato.
Comunque sia, non vi ho certamente disturbato per dirvi queste cosucce. Se potete, pazientate un attimino, che devo sbrigare una faccenduola. Tra parentesi, odio quelli che usano questa espressione: “attimino”. Che si può dire “funeralino”, “tradimentino”, “eschimesino”? E allora? Vi sono tanti stadi di catarsi mentale.
Sarò da voi tra poco. Nel frattempo sedetevi, il divano è nuovo, l’ho scartato la scorsa settimana. Bisogna pur spenderli i soldi che si guadagnano, altrimenti che si lavora a fare? Gradite un caffè? Sono spiacente, ma tengo in casa solo quello all’americana, sapete, ho una gastrite appiccicosa. Potete accendere il televisore, magari ascoltarvi un CD. Ehi, cosa fa? No, no, quelli preferirei non li toccasse, li ho posti per l’appunto più in alto perché non voglio farli neppure sfiorare da mani sconosciute, capisce, sono dei Beatles, mica scherzi. Perché noi, in fin dei conti, non ci conosciamo. Affatto. Voi, tra un po’, avendone la voglia e la giusta pazienza, potrete scoprire qualcosa sul sottoscritto, ma io, di voi, gioco forza non potrò mai scoprire nulla. Sono un uomo di carta, in fondo, mica altro. A ben pensarci sono innumerevoli le sorgenti della nostra ignoranza.
Ecco fatto, sono qua. Dovrei narrarvi di quel periodo schifoso che ha modificato, in peggio, l’andamento della mia esistenza, tizia di sopra a parte, lei ha un codice costante. Farò precedere il racconto degli avvenimenti passati da questo episodio capitatomi la scorsa settimana, non fosse altro che mi tormenta non poco. Poi andrò senza meno al dunque. Suppongo conosciate bene il locale sulla via Emilia “Gun’s Flower”? No? Avanti, è circa duecento metri dopo il ponte, di fronte a quel negozio d’articoli regalo per sporcaccioni. Va là, va là, che lo sapete dov’è! Intanto devo dire che non si capisce da dove prenda origine un nome così stupefacentemente incongruo. Mi pare che una volta vi fosse un complesso Rock, o Beat, o Pop, o chennesò, che aveva un nome simile. Forse.
Venerdì ero lì con Claudio, come il solito. Ci andiamo per fare due chiacchiere e giocare a stecca, magari berci pure una birretta. A farla breve, che io, lo so, la tiro sempre lunga, faccio, mio malgrado, la conoscenza di Michele. E’ un camionista. Lo stomaco prominente ed una più che probabile invaginazione cerebrale. Capirete poi, forse, ammesso ch’io sia in grado di ben spiegarmi, perché vi cito questa situazione. Attraversa la mia mente troppo spesso perché sia libero d’ignorarla. L’unica possibilità per sbarazzarsene, è parlarne. La si esorcizza, o la si anestetizza, occludendogli ogni spazio per una più severa infiltrazione. Allora, vi stavo dicendo di Michele, quello con il cervello di una gallina depressa e l’alito da Guinnes. Pare, secondo alcune indiscrezioni, che sia lui a fornire la componente odorosa miscelata al gas metano impiegato nell’uso domestico. Per avvertire le fughe. Possibile che, oltre ad avere un’emanazione odorosa più che riguardabile da parte della propria cavità orale, questi soggetti si ostinino anche a volerti parlare il più vicino possibile, a non meno di due centimetri dalle tue narici, cosicché l’olezzo le pervade efficacemente? L’avevo già adocchiato altre volte, evitando di fare la sua conoscenza. Non è mai troppo presto. Quella sera indossava una camicia a fioroni, con due ampie chiazze subascellari, probabilmente per annaffiarli. Ubriaco. L’alcool, quando vince e troppo spesso riesce, piega i neuroni nelle più svariate forme di sottomissione: collera, depressione, irrazionalità. Michele era nella fase saputello–logorroica.
- Disturbo ragazzi?
- Figurati . . .
Risposta stracolma del solito imbarazzo di quando ci si trova a confrontarsi con qualche personaggio indesiderato di cui si teme l’irrazionalità del comportamento. In qualche modo assomiglia ad un mio amico che non vedo da tempo. Roberto, quello che due anni fa è uscito di casa la mattina alle otto baciando la moglie ed i figli, poi se ne è andato a Roma, è salito su un aereo ed ora vive a Città del Capo. Da bambini eravamo vicini di casa. E’ sempre stato un tipo strano, un grandissimo maiale in fatto di donne, ma anche un tipo gioviale e decisamente simpatico. Michele, in verità, è solamente un maiale.
- Questa sera, ragazzi, sono giunto ad un’importante conclusione: le donne sono tutte puttane. Fingono di provare piacere e noi, cretini orgogliosi, gonfiamo il petto come stupidi piccioni. Io, che le prostitute, modestamente, le conosco piuttosto bene, almeno quanto loro conoscono le mie tasche, lo posso ben dire.
Poi ci parlò di sua moglie, della suocera con la quale aveva combinato non so quale porcata, di una tipa che aveva palpato. Tutte troie, tutte anorgasmiche.
Se permettete, dato il tipo, non ci sarebbe neanche da stupirsene. Dopo un’interminabile ora di soliloquio, è crollato sulla seggiola, la testa sul tavolino a guisa d’anguria. In cinque minuti si è acceso un roboante motore sprigionato dal suo respiro dormiente. Continuare a giocare era impossibile. Siamo tornati a casa, la mente inseguita da quelle frasi vomitate sul piacere simulato.
La tizia di sopra ha iniziato un diavolerio appena il marito è rientrato. Si lamenta, sbraita, minaccia.
Povero cristo!
Sfido che lavori fino a tardi. Ci siamo conosciuti da ragazzi, era una brava pellaccia, allegro, ciarliero. Guardatelo ora: come infila le chiavi nella serratura di casa, assume l’aspetto, il viso intristito, le spalle piegate, come quello che immagino sia la visione di un condannato all’ergastolo.
Scusatemi, è che io tendo a divagare. Adesso sarebbe il momento di narrarvi dell’americano. Trattandosi, direttamente o indirettamente, anche di me, è una storia complicata, perciò, vedete di non perdervi. Lavoro, oramai da vent’anni, in una ditta che esporta tubazioni, soprattutto nell’Asia centrale ed in medio oriente. Sarei ingegnere meccanico ma, alla fine della fiera, mi occupo più che altro d’organizzazione tecnica e di relazioni con i compratori. Quattro anni fa Rosi, Umberto, il grande capo, mi manda a chiamare.
- Senti Samuele, tra un paio di settimane verrà qua da noi un esperto di management. E’ un fottuto americano. Si dovrebbe chiamare… Ma dove cavolo ho ficcato quel fax? ‘zo, tutte le volte che cerco una stramaledetta cosa non la trovo e poi, tutte le altre volte che non mi serve a niente, spunta fuori per rompermi le sfere. Ah, eccolo qua. Dunque, si chiama Paul Denver, di Dallas. Sai, no? Quella città dove era ambientato quel telefilm famoso? Bravo! Proprio lì. Darà un’occhiata alla nostra azienda. Dovrebbe fornirci delle indicazioni su come migliorarne la conduzione. Te ne occuperai tu. Key point! Non portarlo qui dentro neanche per sbaglio, non lo voglio conoscere, non voglio sentire il suo odore, assolutamente no. Tu lo sai bene, sono comunista io. Gli americani mi stanno tutti sulle balle.
Già! Il comunista… L’essere meno proletario e più miliardario ch’io conosca, ma sempre comunista. Rosi è così, pensa soltanto ai soldi e a scopare, ma non vuole rinunciare al suo essersi fatto da solo, ironia della sorte, proprio come farebbe un vero americano. Quando vengono i clienti arabi, quando c’è da organizzare un certo tipo di situazione, state sicuri, Rosi è in prima fila. Tre mesi fa è venuto il sultano, quello che possiede sette mogli, la più giovane ha diciassette anni, mentre lui è un tipo piuttosto vetusto. Orbene, Rosi si è volatilizzato per quasi dieci giorni. Con il sultano. E’ facile. Convoca qualche hostess. Prenota la solita suite. Poi fanno tutte le porcate che vogliono, con tanto di ricevuta da scaricare sotto la voce: relazioni con la clientela. Più volte gli ho fatto notare che consideravo questa manovra una frode bella e buona ai danni dello stato. Lui, di rimando, si scusava dicendo:
- Se fosse un governo dei “nostri” non lo farei, ma con questi loschi figuri, è più che legittimo.
Poi il governo di sinistra è arrivato, ma Rosi non deve essersene accorto. In ogni caso, quando c’è da seguire una fase progettuale o, come quella volta, far da spalla ad un tecnico, americano non americano, comunista non comunista, lui svicola.
Così mi dovetti sciroppare l’americano.
Quando lo vidi al check point, a malpensa, aveva proprio l’aspetto dello statunitense rampante: dentoni alla Kennedy, occhi azzurri, capelli corti e biondi, alto e muscoloso. Tutto il mio contrario. Io, tuttalpiù, avrò l’aspetto dell’italiano medio: scuro, basso e flaccidino. Va detto, per onor del vero, che in prima fase mi fu piuttosto simpatico. Credo che la situazione, intendo quella personale con mia moglie, fosse fuori controllo già da prima, ma ritengo anche che la settimana successiva iniziò il disastro. Paul era un tipo molto gradevole pertanto pensai di invitarlo a cena presso un ristorante piuttosto in voga, dove avrebbe potuto apprezzare la cucina italiana. Vi condussi anche Federica, mia moglie. I bambini rimasero con la tata. Nel bel mezzo della serata ricevetti una telefonata. Era Claudio. Piangeva. Dovetti abbandonare la compagnia. Lasciai le chiavi dell’auto a Federica con l’onere, seppi poi quanto poco gravoso, di restare appresso al nostro ospite e presi un taxi.
L’inizio della fine, anche se la fine era già stata scritta da tempo. Rincasai tardi, sul fare del giorno. Mi spogliai e, senza indossare il pigiama mi coricai. Disteso nel letto guardavo il soffitto che andava illuminandosi con l'alba. Doveva mancare poco alle sei poiché la caldaia non era ancora partita e quegli stupidi merli cantavano con tutte le note possibili le loro stupide storie.
Gianna era morta.
Un incidente.
Aveva la macchina piena zeppa di sporte colme di spesa.
Era appena uscita dalla parrucchiera, le unghie laccate, un completo di pizzo che le stava divinamente, ma era morta ugualmente.
Gianna era la bellissima moglie di Claudio che ora rimaneva da solo, solo ma con due figli. Claudio è da sempre il mio migliore amico, abbiamo fatto i bambini insieme. Le nostre mogli erano divenute amiche, fin troppo. Andavano congiuntamente in palestra, a lezione d’aerobica e a tutta una serie d’iniziative non sempre lodevoli. Lasciamo stare che per scuola io intenda ben altro.
Ho scoperto, poco prima di quel fatale incidente, che erano entrambe molto attratte dal maestro di aerobica. Pare che Gianna sia stata più volte, come dire, contraccambiata.
Non mi è mai parsa una cosa carina da rivelare al mio amico…
Come il solito mi sono perso. Vi stavo dicendo dell’americano…
Nella mia città c’è un soggetto un po’ folle che viene chiamato proprio così. Veste alla gringo. Si è comperato una chevrolet bianca con le finiture oro, stile “Elvis”. Il suo aspetto è decisamente buffo, per non dire patetico. Porta sul testone pelato un cappello bianco borchiato, ai piedi un paio di stivali degni di Jhon Waine ed al collo uno stupido cravattino texano. E’ soltanto una macchietta. L’americano vero, purtroppo, è quello che è stato appresso a me quei giorni di maltempo, come serpe in seno.
La tizia di sopra si sta facendo sbattere sul letto matrimoniale come tutti i sabato pomeriggio dopo le sei, abitudinaria e puntuale come un orologio svizzero. Urla come uno cui stanno strappando le tonsille. Come si estraevano una volta.
Senza anestesia e molto ghiaccio.
Diciamocelo, è l’unico suo momento urlante che non mi reca danno. Se non fosse per il solito tarlo. Finge? Simula? Non sono affari miei, tizia di sopra, ma se fingi, in questo caso, fallo più piano!
Ho fatto del te freddo, volete favorire? Forse non è stagione, quando mai lo è stata? ‘Stamattina c’erano solo quattro gradi, io lo gradisco ugualmente. Non fate complimenti. E’ qui sul tavolino coi bicchieri a fianco. Poi fate voi.
Continuiamo. C’è rimasto ben poco da dire in fondo. Un bel, ironico, giorno, torno, da dove, a casa, quale casa e mio figlio, mio figlio?, all’epoca aveva solo nove anni, mi dice:
- La mamma ha fatto fagotto!
- La mamma che?
Com’è possibile che un ragazzino si esprima così irriguardosamente nei confronti della vita e di un istante così drammatico è, ovviamente, insindacabilmente, lapalissianamente, inconcepibile. Ad ogni buon conto, rendeva piuttosto bene l’idea. Già, se ne era andata, con l’americano. A Dallas. In Texas. Goodbye.
Ed io? Feci la solita parte indicata per queste occasioni: finsi di cadere dalle nuvole, un fulmine a ciel sereno. Ma tutti, me compreso, lo sapevano, chi non ne era certo, l’aveva comunque intuito.
Che le cose tra noi non andassero più un gran che, era evidente. Quante volte avevo avvertito il fastidio che provava nei miei approcci amorosi. Probabilmente quando lo facevamo fingeva. No, attenzione un attimo, ne sono certo. Ricordo fin troppo bene come era fare l’amore all’inizio tra noi. Lo ricordo con intensa emozione e follia, quella follia che non esisteva, oramai, più da tempo. Sapete com’è, tentiamo, per comodo, pigrizia o assuefazione, di non vedere quello che salta invece agli occhi.
La sostanza unica è che lei se ne è andata lasciandosi alle spalle solo una misera letterina, scritta come la compongono i bambini deficienti, con mille errori d’ortografia e calci in culo alla sintassi. Poi, per tre anni, il nulla completo, il vuoto più cupo.
Quando ci ripenso, quello che mi lascia stupefatto è l’indifferenza elaborata dai miei figli in quell’occasione. Hanno chiesto di mamma solo poche volte accontentandosi delle mie spiegazioni disorientanti. Ho fatto quello che potevo, capirete, c’è n’è da fare per due mocciosi. Per la verità, li amo così tanto che non mi è costata troppa fatica.
La tizia di sopra ora bussa alla tizia di sopra–di sopra. Suppongo per il solito motivo: il volume del televisore. Che volete? E’ sorda come una campana. Vecchia, sola e sorda. Ah, già, dimenticavo, anche zitella. Non ci si accorge mai del disturbo arrecato al prossimo mentre siamo ipersensibili per quello subìto.
Come in auto. Se fai una scorrettezza te la ridi dicendoti: “Quanto sono furbo”. Se un altro fa altrettanto ti attacchi al clacson ergendoti a giudice dell’umanità.
Io non tocco mai il clacson.
Era sempre motivo di diverbio con mia moglie…
Per tre anni non s’è vista né sentita. Per quel che ne sapevo poteva benissimo essere defunta. Non che l’abbia mai pensato. Mia madre le ha vomitato dietro ogni forma di cattiveria possibile. Io no. Ero come in trance. Immaginavo i colleghi al lavoro, il fornaio, la fruttivendola, la gente del quartiere che se la rideva.
Eppure, non covavo né rabbia né frustrazione.
Vi dicevo di Claudio.
Io e lui, in poche settimane, ci ritrovammo entrambi senza moglie e con due pargoli a cranio da crescere ed accudire. Abbiamo unito le forze. Da ragazzo, Claudio, era un tipo timido ed introverso. Con le donne era un’autentica frana, possedeva però un’attrattiva irresistibile. Qui ora mi gioco definitivamente il pubblico femminile. Lo so, lo so, è un luogo comune ma, è forse colpa mia se è anche un’incontrovertibile verità? Chiamiamolo assioma, va meglio? Claudio era incredibilmente, indicibilmente, spudoratamente facoltoso. Ben inteso, lo è ancora.
Fu accalappiato da quella che divenne poi sua moglie durante la festa di compleanno di una sua lontana cugina. Poco cugina e molto troia. L’Erminia, quella che tutti noi più volte…
Ma questa è una faccenda che non credo interessi gran che.
Gianna se lo portò in bagno e gli fece un servizietto, seppi poi, con i fiocchi e i controfiocchi. E brava la Giannina! Ne rimase tanto estasiato che il giorno dopo le chiese di sposarlo.
Pessima mossa!
Le corna infierite non credo possiedano una numerazione sufficiente per le dita delle mani e dei piedi. Lui, sia come sia, era un uomo felice. Ignorava, o fingeva di farlo. In fondo è la stessa cosa.
Una sera, rincasando silenziosamente per fare una sorpresa ai bambini, ascoltai questa conversazione tra le due donne fedifraghe:
- C’è l’ha così piccolo, ma piccolo… E poi è imbranato. Dopo sei anni di matrimonio non ha ancora imparato come fare ad usarlo!
- In questi casi è importante avere le giuste conoscenze cui attingere nei momenti di bisogno…
- Per quello non ti devi preoccupare…
Già. Poi senti dire dai tuttologi televisivi che le dimensioni non contano e blà–blà, e cì–cì, e cò-cò. Tutti stronzi. Stanno lì soltanto per narcotizzarci e noi beati ad ascoltarli. Ma Claudio sapeva di non essere gran che, pertanto ringraziava la sorte d’esser nato ricco, avendo così potuto accalappiare quella splendida maiala di sua moglie. Deliziava molti uomini, questo è vero, ma lui era uno di quelli. Perché no?
Quante sono le possibilità di lettura delle vicende della vita?
Tornando a me, cosa rimane da dire?
Ho quarantasette anni.
Quando sposai mia moglie ne avevo trentatré, come quelli di Cristo, o come i trentini che entrarono trotterellando a Trento, a quanto si dice. Dopo dieci anni di matrimonio, quella se ne va con l’americano e per tre anni non si dà la minima pena di far sapere se è viva o altro.
Poi, due mesi fa, una domenica pomeriggio, squilla il campanello.
Se posso, la domenica la trascorro in casa. Guardo la TV, ascolto musica leggendo un libro. Adoro gli autori anglosassoni contemporanei, possibilmente dalla scrittura veloce ed innovativa. Talvolta suono il pianoforte, sporadicamente salgo in mansarda e dipingo. Per imbrattare tele necessitano quiete e tempo. Capite da soli che con due ragazzini per casa può essere problematico.
Quel pomeriggio erano rimasti da Claudio a giocare con i suoi figli.
- Te li porto a casa io subito dopo cena.
Così sono salito di sopra e ho sfogato una parte della mia inquietudine. Al trillo del campanello ho pensato: “chi cazzo sarà questo rompicoglioni?”
Il rompicoglioni era Federica.
- Ciao Samuele, posso entrare?
Aveva i capelli tagliati più corti.
Dimagrita.
Bella come sempre.
La feci entrare.
- Sono andata in via veneto ma non c’era nessuno, ho immaginato foste venuti qui per il fine settimana e così...
- Appena possiamo veniamo in campagna, sai, per via della tizia di sopra, certe cose non sono cambiate…
- Già…
Le chiesi a cosa dovevo tanto onore.
Lo feci con tono sarcastico, non studiato.
Tre anni prima mi ero preparato frasi sferzanti da usare per l’occasione, ma in quel momento non mi vennero in mente.
- Vorrei tornare…
Tornare? Da chi? E perché? E poi, da dove? Si mise a piangere. Disperatamente. Mi parve di scorgerne la sincerità.
- Puoi andare in via veneto. Domani ti porto i bambini, poi si vedrà.
Cosa volete che ci fosse da vedere. Dopo neanche due mesi abbiamo fatto l’amore. Forse no, solo sesso. Diciamo che si è copulato, via!
Per tre anni non me l’ero toccato se non per espletare i bisogni fisiologici. Non ero nemmeno sicuro di essere in grado.
Io no, ma lui si. Come lui chi? Lui, il coso, l’aggeggio atto alla copula.
Comunque, coso o non coso, mentre riunivamo i nostri corpi dopo tanta astinenza, solo mia, ovviamente, la tizia di sopra ha preso a battere, immagino con una scopa, sul pavimento.
Non riesco a capire se il suo difetto è parziale o completo.
Di certo, il deficit è dimostrabile.
So bene che non ci faccio una gran figura.
Mia madre è incazzata come una iena. Mia sorella, tutte le volte che mi vede, mi bercia contro male parole, non mi chiama neanche più per nome. Quando mi saluta mi apostrofa così:
- Ciao coglione!
Claudio ha trovato una donna che lo scombussola sessualmente e le ha già chiesto di sposarlo. Quest’estate andiamo tutti insieme in vacanza, in Sardegna. Le due donne sono subito divenute buone amiche. Se i precedenti contano, la cosa non mi garba più di tanto.
Io, dell’americano non ho mai chiesto nulla, non lo farò.
Il venerdì sera vado al Gun’s Flower per giocare a biliardo.
Di tanto in tanto faccio l’amore con Federica. Apparentemente con nuovo trasporto da parte di entrambi. Puntualmente, finito l’amplesso, mi interrogo: “avrà provato piacere o ha finto soltanto?”. Il fine settimana lo passiamo in campagna. Durante la settimana, nel periodo scolastico, abitiamo in via veneto.
La tizia di sopra continua a rompere i coglioni.
L’Inter è in testa alla classifica, ma non mi illudo, mancano ancora quattro giornate alla fine del campionato...

martedì 8 settembre 2009

qualche quadro di follia

70x70
smalto su tela















controcanto



Occhi scuri,
quando schiudeva le labbra
cantava.
Fessure del vento,
gli occhi,
e i giorni,
come rapidi suoni.
Era un autunno
senza riflessi,
senza passi di danza,
senza voce.

lunedì 7 settembre 2009

ernesto "che" guevara


100x100

smalto su tela

sabato 5 settembre 2009

dal cerchio al vento



Perchè un blog... L'idea nasce per comunicare qualcosa a qualcuno.
Indaghiamo intanto sul "qualcosa": non sono un dentista, lo faccio soltanto. Per meglio dire, nella vita oltre a fare un mestiere impegnativo faccio tante altre cose. Se qualcuno è curioso di sapere cosa, può affacciarsi in questa finestra virtuale e scoprirlo.
Per quanto concerne il "qualcuno", onestamente non ho preclusioni, purchè neppure "lui" ne abbia.

La casa editrice Tosca ha pubblicato una mia raccolta di racconti dal titolo: Senza Nome. chi vuole può scaricarla direttamente e gratuitamente dal sito : http://www.toscaedizioni.it/.

Ho rivisto per l'ennesima volta il film: La casa sul lago del tempo. Come? Non avete la minima idea di cosa sia e di che si tratti? Vergogna! Andatevelo a noleggiare poi ne riparliamo...

mercoledì 2 settembre 2009

ppdp


30x30

smalto su tela

lunedì 10 agosto 2009

tita



Distratto
dalle macchie di cielo,
riappare
poi colliqua al sole,
scorre
nell'aria più leggera,
rallegra
le persone sole.
E' la forma
dell'acqua
a cantare
sulla strada,
supera
i ceppi viscidi,
distende
i nostri attimi.

sabato 8 agosto 2009

bibi



Dipingo sul mio viso una spirale,
Occhi di dura pietra ghiaccio e perla,
mani di cuori accesi e pulsazioni rapide.

venerdì 7 agosto 2009

giogio



Cadono e si abbracciano
raccontano le immagini
cuori che si spengono
li trattengo in me
Tra le ombre labili
con i loro limiti
passi sopra gli argini
e colori morbidi
Hanno giorni immobili
spazi dolci e armonici
hanno sogni simili
pietre, foglie e fremiti

giovedì 6 agosto 2009

camy



Nascono e si affacciano
sfiorano i miei attimi
sai che qualche volta poi
sanno scivolare via
Tra le pagine libere
con le loro anime
cieli senza voci
e tanti suoni instabili
Hanno labbra docili
occhi stretti e fragili
hanno voli limpidi
mani calde e semplici

lunedì 20 luglio 2009

sorriso e vento



Distratto dalle macchie di cielo,
riappare poi colliqua al sole,
scorre nell'aria più leggera,
rallegra le persone sole.
E' la forma dell'acqua
a cantare sulla strada,
supera i ceppi viscidi,
distende i nostri attimi.

occhi di ragazza



Non una parola,
solo gli sguardi
misti a pioggia
raccontano di te.
Accendo
un'allegria
innaturale,
Corpi di nuda terra
in acqua e fango,
labbra di spazi aperti
e di sospiri liberi.

sabato 18 luglio 2009

acqua e occhi



Sotto una languida ombra
prossima al mare
il mio piccolo dorme.
Sono un guizzo di scoglio.