mercoledì 30 settembre 2009

settembre ancora




Ieri per un caso davvero fortuito (dovevo scendere e poi salire invece resto lì, fermo come un mammalucco che si perde a non pensare), m’imbatto in Luciano: solita faccia da culo, pochi capelli in gran parte canuti e quel sorriso bastardo che un poco ti sfotte e un po’ ti seduce.
Volti distorti e distanti percorrono arresi sentieri.
Mondi nascosti sottovento s’adombrano appena di una certa malinconia, non più di quella che costantemente mi porto appresso.
Ritorno a un settembre già stato, nell’aria un odore sottile di mele e di acini d’uva. Giorni contati, d’accordo, ma dal sapore migliore.
Ricordo l’incontro che feci con questa faccia da gatto con il raffreddore che ancora purtroppo ritrovo quando trovo il coraggio ed affronto il riflesso.
Ma se devo spiegare il motivo per cui mi sorprendo a indagare tra quelle fessure smagliate, proprio ora che m’appresto ad attaccare col dito indice della mano destra, la sinistra impegnata a torturarmi l’occipite, un ossidato pulsantino d’ottone, non saprei dare risposta.
- Sì?
- Buongiorno signora, sono Lecconi…
- Vieni, vieni. Ti stavamo aspettando. Quarto piano.
Entro nell’androne di un vecchio palazzo marchigiano, dove marchigiano non sottintende affatto uno stile architettonico, bensì una specifica topografica.
Alle mie spalle il vecchio portone si richiude con un miagolio da cinegiallo; un istante a decidere tra scale e ascensore, quindi mi avvio, uno scalino alla volta che un’immagine all’altra accavalla.
E l’odore di chiuso.
E il silenzio che copre le risa.
Sfuggi se vuoi.
Nasconditi pure, per quanto, non pare che nulla sia molto efficace.
Così t’allontani.
Ad un altro settembre, ad un altro coraggio, un sogno o un colore che hai avuto per mano e ti è parso sottile, fin troppo sottile per tenerlo con te.
Ed ora lo cerchi.
Ma dove?
Ed anche se fosse, non giunge un po’ tardi al portone?
Sul secondo pianerottolo un’anziana signora se ne va di ramazza, una vecchia vestita da vecchia che respira da vecchia.
Mi getta un’occhiata ben poco benevola.
Il buffo è che anche quindici anni fa, quando venni a trovare il prof. l’ultima volta, era li che spiegava le forze strofinando nel marmo.
Forse un po’ meno vecchia e, se ben mi rammento, pure meno gentile.
Anche allora avevo necessità di un incontro, di un silenzio, di un appiglio cui aggrappare i pensieri.
Era andata così: consumati tre giorni a fronteggiare il vento, il corpo una statua dal volto arcigno, senza che nulla avvenisse.
Il sole si era comportato da sole di fine estate, i passanti si erano tutti identificati nella media gaussiana del passante tipo: corpi in bombetta su uno sfondo di nuvole.
Ma qualcosa cambiò.
Ad un preciso istante, di quelli che sorgono al seguito di una scomoda idea, mi liberai di quel sentimento avverso che mi aveva sequestrato al mondo.
Un attimo solo, trattenni il respiro, un respiro profondissimo, maledettamente conscio della futura apnea e mi diressi velocemente, senza sapere neanche io il perché, a casa del prof.
Ricordo le sue parole, allegre e severe, mi permisero di intraprendere quel viaggio un po’ troppo pindarico che infine ha portato a quello che sono:
“devi accettare la sconfortante idea che la vita è quella che vedi, quella che vivi e non quella che tanto fervidamente immagini.
Quando raggiungerai questa consapevolezza, inevitabilmente qualcosa nella tua mente accadrà.
Solo allora per ogni avvenimento che sarà tetro e spento potrai attingere a quel meraviglioso crogiolo di fantasia accesa e sublime che è in dotazione ad ogni uomo.”
Tento di proseguire l’ascesa e forse lo faccio, ma fastidioso continua, ostinato rovella il pensiero.
D’accordo, Luciano, m’arrendo, dimmi che vuoi.
Che mi vuoi raccontare?
M’insegui, circondi i miei attimi e subito dopo mi sfuggi.
In vent’anni ti avrò visto tre volte; in ogni occasione mi hai rotto le palle con racconti noiosi, narcotizzanti, sulle tue donne, sui tuoi grovigli, pieno di te, dei tuoi vizi e di quei tic maledetti.
- Settembre.
- Come dici?
- Settembre.
Come sempre settembre transita indifferente al nostro sguardo che sia o non sia consapevole della nostra caducità; è la qualità dei suoi giorni che pregna i pensieri.
Ma quale ruolo tu abbia, Luciano, in questo disagio, ne sono all’oscuro.
Si affaccia alla mente più spesso di quanto dovrebbe, e non so se dovrebbe, con quel suo insinuarsi tra i salti e le risa.
Ho una strana sensazione, come se i miei ricordi siano solo presagi di un tempo a venire, che quei giorni di quando le corse sollevavano le gambe fino al cielo debbano ancora arrivare.
La mamma di Stefano aveva occhi azzurri piccoli, piccoli, come fessure.
E un animo semplice.
Mani callose raggrinzite dal duro lavoro nei campi, una schiena incurvata e così pochi denti che quando rideva pareva una strega.
Quando la conobbi doveva avere all’incirca trentacinque anni ma ne dimostrava settanta.
La mamma di Stefano aveva occhi e cuore solo per lui, lui che era il più piccolo, così intelligente, con quel sorriso da simpatica canaglia.
Luciano, di questo strano e ossessivo amore materno ha sempre sofferto, covando una forma di gelosia nei confronti del suo fratellino fin troppo sfilacciata e rancorosa.
Chissà se è questo il motivo per cui è sempre stato un gran figlio di puttana mentre suo fratello era un tipo buono, dolce e allegro.
La mamma di Stefano morì una mattina piovosa di febbraio e molte cose, ineluttabilmente, non furono più le stesse.
Io non so se fu questa la ferita che condusse Stefano in quella strada senza uscita, con sosta per decesso anticipato.
Non so se una ragione in queste cose vada cercata o, più semplicemente, la vita sia da accettare così com’è, senza tante spiegazioni.
Fu tre giorni dopo la morte di Stefano che andai a trovare il prof. Miratelli.
Ora credo di sapere perché Luciano mi saltella nella mente: è il mio rimorso.
Io del resto sono il suo…
Nessuno dei due si è mai potuto perdonare di non aver fatto l’impossibile, a volte manco l’indispensabile od il minimo.
Troppo presi dalla vita: il lavoro, lo studio, le compagnie piacevoli.
Stefano non poté contare sull’aiuto di suo fratello né su quello del suo migliore amico, quel bambino con la faccia da gatto col raffreddore che aveva conosciuto una mattina di settembre al di là di una siepe di biancospino; come visitando uno specchio.
Così settembre mi richiama e scivola al mio fianco.
Stende quei suoi giorni, tutti in fila, uno dietro l’altro e li racconta.
E nel racconto li fa belli.
Ma io li osservo come sono veramente e, sinceramente, non so dire quanti ne tornerei ad affrontare senza timore, ora che non sono più in possesso di quell’illogica follia.
Ho compreso il motivo per il quale Luciano è qui con me mentre senza fretta salgo queste scale e affronto quel rimorso; presumo che anche lui affronti il suo ogniqualvolta i nostri giorni stringono alleanza per farsi compagnia.
Lo so che quando mi guardi dritto dentro gli occhi mi rimproveri le assenze, le troppe mie assenze.
Io quando invece entro dentro gli occhi tuoi lo faccio solo per capire come fai ad ostentare sul tuo viso quell’insolito sorriso.
Ora che conosco la ragione per cui mi rovisti i pensieri, devo chiederti un piccolo favore: allontanati, se puoi, dalla mia mente, Luciano.
Coraggio, levati dai coglioni!
La porta socchiude ed incrocio lo sguardo di una donna che deve essere stata molto bella da giovane: occhi grandi luminosi e un bel sorriso.
L’età e la vita si sono industriate a spegnerlo ma pare che, per ora, non abbiano potuto molto.
- Luigi ti aspetta nel soggiorno…
Entro adagio, adagio, quasi scivolo, forse un po’ troppo timoroso.
Poi lo vedo.
Una coperta a scacchi dai colori incongruenti (ma cosa è congruo ormai, cosa mai lo è stato?) per non mostrare gli arti lesi.
Come di pietra, insisto sulla soglia, ma è solo un attimo.
La voce è quella che t’immagini, un po’ fiacca, le parole strascicate, ma lo sguardo è proprio quello che speravi.
E tutto diventa più facile.
- Allora, cot fè ma le? Siediti dai e racconta.
Racconta…
La vita stessa è un serbatoio di racconti, un alchimia di sensazioni ed emozioni avvicinabile solo a chi sa coglierle.
Ci si deve saper stupire e poi commuovere; saper scendere e salire le bassezze e le alte vette delle sue virtù.
Passando per un parco dove nel tempo, il tempo stesso più volte mi ha dato appuntamento, raccolgo in pochi istanti tutti quei momenti che hanno deciso la mia storia.
Colgo in essere un disagio misterioso, che misteri e nascondigli poi non ha, solo attimi.
Attimi ora struggenti, ora patetici, ora esplosivamente allegri.
Ma mai indifferenti, mai inutili.
Un bel respiro, prendo coraggio e parto.
- Le ho portato questo…
Appoggio su un tavolinetto tondo con intarsiata una scacchiera il motivo del mio passaggio: una busta gialla che lui osserva poi, senza una minima occhiata interrogativa, apre, quasi scartandola come fosse un cioccolatino.
Lo sapeva, lo ha sempre saputo, lui prima di me.
Aspettava soltanto arrivasse il momento, questione di tempo.
Senza che nessuno dei due nulla possa proferire, che bisogno in fondo non c’è, ecco che s’incanta in una profonda lettura, quasi un sonno oppure, chissà, un viaggio.
Cinque minuti, venti, un ora o più?
Non cado nella tentazione di spiarlo nella mimica, nel suo usuale crucciare il sopracciglio, nel torturarsi il lobo o nel sorridere tra se.
Vorrei ma non vorrei sapere cosa sta pensando.
Ad un certo punto, in un certo istante riarso ci guardiamo, entrambi con le labbra coricate in un sorriso.
Sai che ho scritto anch’io delle cosucce?
Non sono state molto apprezzate, per la verità m’importava ben poco. Sostenevano che quanto scrivevo non aveva nessun tipo di trama. A sentire loro ignoravo i fondamentali, buffo no? Una scultura ha una trama? Un dipinto segue sempre tracciati già percorsi? Guarda la vita, la mia per esempio: seduto senza possibilità di muovere il corpo, e cosa pensi? Che sono finito? Che non ho più trama? Questo tuo racconto non ha trama, eppure emoziona, ha ritmo. E’ violento e delicato, dolce ed amaro, sereno e rabbuiato, come l’animo umano, come le sue emozioni. Senza tempo, senza spazio, senza dimensioni che siano d’appiglio.
Entra dentro la stanza, silenziosa, quasi furtiva, con quei suoi occhi sorridenti.
Un vassoietto con un bicchiere d’acqua e una compressa rosa.
Non dice nulla, neppure lui, nemmeno io.
Mi alzo, stringo quella mano debole ed anemica.
Lui si china e con l’altra mano mi afferra il polso.
- Se vuoi, quando vuoi, vieni a trovarmi e portami i tuoi lavori.
Sarò un rottame ma la mia mente funziona ancora e si ostina nel continuare ad essere. Resisto, stranamente disponibile ad assaggiare le emozioni.
Così settembre mi getta in faccia la sua aria fresca della sera.
Mentre cammino penso a questo giorno e, pur senza esserne sicuro, mi pare di comprendere il suo volto.
Perciò m’arrendo a questo vento che m’abbraccia e mi trascina fino al fondo della spiaggia dove il mare riconosce le mie scarpe.
Accetto l’inquietudine e dissolvo.
Di quel settembre un altro giorno.

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